Ci avevano detto che non sapevamo fare i genitori.
Che avevamo abdicato al nostro ruolo educativo, che stavamo – smidollati – crescendo una generazione di bambini maleducati, incapaci di affrontare un no, di rispettare una regola, di stare in società. Che stavamo crescendo dei piccoli tiranni, ai quali eravamo completamente asserviti. “La generazione di genitori peggiore della storia”, avevano sentenziato quelli che avevano provveduto a loro volta a educarci.
E poi è arrivata la pandemia.
E ci siamo inventati insegnanti, senza averne le competenze, le velleità, l’esperienza. Senza averne il ruolo e l’autorevolezza. Eppure lo facciamo, per ore, da settimane. Talvolta sopraffatti da una mole inusitata di richieste, stimoli, materiali, scadenze. Talvolta completamente abbandonati a noi stessi, lasciati soli con il nostro buon senso e la nostra capacità di improvvisazione.
Ci siamo riscoperti compagni di giochi. Amici senza poterlo essere (per anagrafe, per ruolo, per attitudine). Surrogati più o meno efficaci di una generazione di coetanei che improvvisamente è scomparsa dalle giornate dei nostri bambini. Abbiamo dovuto attingere a risorse di immaginazione, pazienza e di libertà che neanche più pensavamo di avere, cercando di trasformare ogni giorno, per settimane, la realtà in sogno, in fiaba, in magia.
Siamo diventati costruttori. Ci siamo rimboccati le maniche e abbiamo cominciato a fabbricare di tutto, con il poco che avevamo a disposizione. Strumenti musicali coi rotoli della carta igienica, veicoli di plastica riciclata, bambole e pupazzi con vecchi ritagli di stoffa e pezzi di spago. Come se, all’improvviso, avessimo compreso la labilità del nostro benessere. L’apparenza effimera su cui si fondano le nostre privilegiate vite di occidentali del terzo millennio.
Ci siamo improvvisati psicologi. Capaci di ingoiare il boccone amaro della nostra stessa ansia in nome della serenità dei nostri figli. Di nascondere al meglio la preoccupazione montante per il nostro lavoro, per i conti da pagare, per lo stipendio in forse. Di nascondere, soprattutto, l’angoscia per i nostri “vecchi”, minacciati dalla nuova, oscura, malattia e da quelle ben note, che a differenza nostra non sono andate in quarantena. I nostri vecchi tallonati da mostri vecchi e nuovi, dall’insicurezza, dalla fragilità, oppure dalla loro stessa incoscienza, dalla reticenza, dalla negazione. Ci siamo improvvisati psicologi, obbligandoci a raccontare ai nostri bambini la più terrificante delle storie, cercando di aiutarli a comprenderla, a decodificare l’orrore senza che questo finisse col fagocitarli. Abbiamo drenato incubi notturni e domande atterrite, interpretato silenzi, ammortizzato regressioni improvvise. I più sfortunati di noi hanno dovuto accompagnare i propri figli in un agghiacciante viaggio nell’Ade, sostenendoli in qualche modo nell’elaborazione di un lutto mai concretamente consumato. Un lutto senza liturgie, senza saluti, senza conforto.
Ci siamo messi a fare i cuochi. Pasticcieri, fornai, pizzaioli. E non perché avessimo paura che sarebbe mancato il cibo in tavola, che i nostri figli sarebbero morti di fame. Abbiamo rispolverato il rito atavico del “preparare il pane” come gesto primo e ultimo di accudimento. Come esorcismo collettivo, come atto definitivo di vero amore. Come manifestazione esplicita della nostra resistenza. Il lievito che monta, lo zucchero che caramella, il vapore che sale in volute dai nostri fornelli sono stati la nostra risposta istintiva alla morte. Gli strumenti primari con cui “fare il nido”, trasformando in tana e in focolare quella che era una semplice casa.
Siamo diventati animatori, musicisti, lettori, infermieri, confessori, allenatori. Ci siamo letteralmente fatti carico delle vite dei nostri figli piccoli – del loro benessere emotivo, psicologico, mentale, prima ancora che fisico – come mai nessuna generazione aveva dovuto fare prima. Ventiquattr’ore al giorno, da soli. E lo abbiamo fatto continuando a lavorare ogni santo giorno (qualcuno direttamente al cospetto della malattia e della morte), e continuando a essere figli, cittadini, mogli, mariti, sorelle e fratelli.
Alla fine, dovremo prendere atto dei nostri inevitabili errori. Ma, soprattutto, potremo guardarci allo specchio con una nuova consapevolezza, che nessuno, a cominciare da noi stessi, dovrà più permettersi di negare: non siamo perfetti, ma siamo genitori. Siamo madri e siamo padri. E sappiamo perfettamente come si fa.
2 Commenti
Che belle parole. Io invece durante questa quarantena sono andata molto in crisi come madre perché spesso a causa della situazione perdo la pazienza con i bambini, non sono in grado di motivarli a fare i compiti scolastici e non riesco mai a ritagliarmi il tempo per fare tutti quei bellissimi lavoretti di cui sono costellati i social. Ho anche pensato che tre figli di età diverse da gestire sola (mio marito lavora) sono troppo impegnativi ora che non ci sono i nonni, le attività, la scuola/asilo. Non riesco più a dargli la versione migliore di me o a pensare al loro bene mettendomi in secondo piano. Avrei anche il mio lavoro da portare avanti da casa (un impiego part-time), ma non riesco a stagli dietro.
Mi dispiace tanto, di certo sei chiamata a una sfida davvero impegnativa. Dover fare tutto da sola non è quello che normalmente si richiede a una madre, non è il momento di fare bilanci ma di essere più indulgenti, con sé e con loro. Un abbraccio enorme di incoraggiamento!