La mattina di Natale mi svegliavo sempre di buon’ora. Io, che nei giorni normali indugiavo il più possibile sotto le coperte, altri-cinque-minuti ripetuto come un irresistibile mantra, il 25 dicembre aprivo gli occhi di scatto, in un risveglio rapido, senza esitazioni. L’adrenalina pompata nel sangue a grandi ondate, inconsapevolmente. Una felicità chimica, resa appena pungente da un piccolo dubbio labile. Una microscopica esitazione, che mi faceva affondare la testa nel cuscino ancora per una manciata di secondi, incapace di correre subito a verificare.
Ma era soltanto un attimo. L’ottimismo infantile, il sogno e la fiducia – insieme all’adrenalina, ancora lei – avevano sempre la meglio nel giro di un minuto o poco più. Scendevo dal letto a piedi nudi, il freddo del pavimento datato sotto gli alluci, e saltellavo verso l’albero di Natale già insolitamente illuminato. Tenevo gli occhi socchiusi, per non guastarmi la sorpresa. Per dilatare un pochino l’attesa e godermi il momento. Quello in cui avrei finalmente abbracciato con lo sguardo la piccola pila di pacchetti luccicanti che occhieggiavano sotto i rami sintetici.
Non erano tanto i giocattoli, per quanto fosse bello scartare i regali. Era la promessa mantenuta. Era la magia che tornava a compiersi. La mattina di Natale era una conferma. Dell’amore che mi circondava e del mistero dolce che illuminava la mia vita. Era una dimostrazione pratica della fortuna che mi aveva baciato quando ero venuta al mondo. Nella mia famiglia, nella mia casa. Era anche un grande bagno nell’autostima, perché scoprire di essermi meritata esattamente quello che settimane prima avevo richiesto con occhi splendenti voleva dire che ero stata brava. Che quella fortuna, e tutto quell’amore, non erano forse piovuti sulla bambina sbagliata.
La mattina di Natale era la prova tangibile, a cadenza annuale, che alcune cose esistono anche se tu non le puoi vedere. Che alcune cose hanno un profumo distinto e dei colori brillanti, anche se non puoi guardarle con gli occhi, anche se è impossibile annusarle dilatando le narici. Che certe cose, semplicemente, le vivi con l’anima. La mattina di Natale era la soglia luminosa di un sogno. L’ingresso in un mondo che apparteneva soltanto a me, in cui tintinnavano campanelli di ottone e la neve, che a casa mia si vede forse una volta ogni vent’anni, luccicava al sole fino a farti arricciare gli occhi.
La mattina di Natale era il sorriso dei grandi, felici della mia felicità. Orgogliosi di avermi regalato un piccolo inganno che era in realtà un biglietto di sola andata per un pianeta di sogni (e quanto avrei pianto, qualche anno dopo, nello scoprire l’arida verità). Era la complicità coi piccoli. Gli unici a gustare appieno insieme a me la bellezza irresistibile della magia. La mattina di Natale era davvero un giorno speciale. Perché, quando ero piccola io, di regali non se ne ricevevano poi tanti, durante l’anno. Perché aspettare era ancora un piacevolissimo tormento, perché l’amicizia con un giocattolo era inossidabile, e durava negli anni.
La mattina di Natale è una gemma di luce calda incastonata nella mia memoria di adulta. Un piccolo spazio scintillante e profumato stretto nel mio cuore, destinato a rivivere adesso nelle aurore natalizie insieme ai miei figli. Sperando che si compia ancora la magia, e che io possa tornare bambina insieme a loro, almeno per qualche ora.
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