Quando ero piccola raccoglievo tesori. Percorrevo a testa bassa i viali sterrati alle spalle del caseggiato in cui sono cresciuta, scandagliando la strada come un segugio infallibile alla ricerca di rarità e meraviglie. Poi andavo, con molta circospezione, a sotterrare il mio bottino in una piccola aiuola all’esterno del giardino di zio Andrea, l’adorato fratello di mia nonna, che viveva a pochi passi da noi.
Monetine ossidate, lustrini, carte da gioco, tappi a corona e qualche biglia di vetro. Cappucci di biro e mozziconi di matita, frammenti di vecchi giocattoli e contenitori gialli di sorpresine assemblabili. I fermagli per capelli li lasciavo in terra, mi sembravano luridi, mi facevano senso. Ogni tanto mi imbattevo in un guscio di vongola, oppure in uno di quei vetrini levigati che la risacca abbandona sulle spiagge, e mi sentivo come un paleontologo che scopre un fossile marino in cima alle Dolomiti. Ma i ritrovamenti più sacri erano i rari brandelli di pagine scritte: lettere, liste della spesa, compiti di scuola, ricette di cucina. Autentici messaggi in bottiglia arrivati per me da altre vite, misteriosi e immaginifici. Una vertigine romanzesca.
Un pomeriggio d’estate scovai tra le pietre una mezza tavoletta di cioccolato, secca e dura. Era intatta, nessun segno di denti da latte a intaccarne la golosa perfezione. Ricordo nitido lo stupore, l’eccitazione per quel ritrovamento così inusuale e fortunato. Per un attimo devo aver pensato anche di assaggiarlo, quel reperto dal sapore precolombiano, ma poi la tavoletta di cioccolato finì al suo posto accanto al giardino di zio Andrea, sotto la grande ics immaginaria della mia personalissima mappa del tesoro.
Raramente andavo a disseppellire i miei preziosi. Rammento distintamente di aver estratto dal terriccio vulcanico, una volta, una scheggia di piastrella in maiolica e la minuscola carcassa di una lucertola, ormai in larga parte decomposta. Ma in generale restava tutto lì, al sicuro sotto il folto cespuglio verde-giallo e nelle isole caraibiche della mia fantasia.
Non credo che il mio prozio si sia mai reso conto di quante meraviglie si celassero a pochi metri dalle sue piante di limoni. Mia nonna sì, una volta mi colse di sorpresa mentre, con un cucchiaio dal manico di plastica, ricoprivo di terra una molletta per il bucato o un accendino scarico. Mi fece un mezzo rimprovero sui danni che scavando avrei potuto causare alle radici, ma intanto sfoderava il suo celebre sorriso sornione. Io capii che il mio segreto sarebbe stato al sicuro.
Chissà se i bambini di oggi vanno ancora in cerca di tesori da seppellire in giardino. Chissà se ne hanno il tempo e la voglia. I viali in cui giocavo da piccola adesso sono tutti asfaltati. Mia nonna e suo fratello hanno lasciato questo mondo e questo tempo, ma il cespuglio ispido è ancora là, impassibile al mio segreto quasi trentennale. Chissà se qualcosa del mio bottino resiste ancora in quel pugno di terra accanto alla casa in cui sono stata bambina.