Non sono stata una di quelle future madri che amano ciecamente essere incinte, che con un figlio in pancia si sentono “miracolate” o in stato di grazia. Ma di certo non ho odiato le mie gestazioni, fortunatamente entrambe serene e fisiologiche. Ho vissuto il mio stato come una fase eccezionale eppure “normalissima” del mio percorso di vita, come una condizione naturale e un’esperienza molto intensa. Non ci ripenso molto spesso, e non prevedo di avere altri bambini in futuro. Eppure, a distanza di anni, ammetto che esistono alcune cose che mi mancano della gravidanza.
Silvana Santo - Una mamma green
Sono nata all’inizio dei ruggenti anni ’80, gli anni del debito pubblico da capogiro, dell’inflazione, della pseudo-emancipazione femminile seguita alle lotte e alle effimere conquiste del decennio precedente. Ho attraversato, crescendo, gli anni del disincanto, della crisi economica, delle fabbriche chiuse. Della decrescita più o meno felice, più o meno necessaria, più o meno obbligata. Poi quelli della bolla digitale, delle nuove professioni, del precariato cronico.
E negli ultimi tempi assisto con sentimenti alterni al dilagare della cultura della consapevolezza, dei life coach e dei motivatori. Quella filosofia secondo la quale siamo fondamentalmente “artefici del nostro destino” e responsabili, in buona sostanza, dell’approccio con cui affrontiamo la vita ogni giorno. “La felicità è una scelta”. “Se la tua vita non ti piace, allora comincia a cambiarla!”. “Smetti di lamentarti e agisci!”. Sono i mantra che occhieggiano da tanti profili social, meme ispirazionali e manuali di auto-aiuto. Ma è davvero sempre così? Siamo realmente liberi di fare della nostra vita quello che vogliamo, di cambiare le cose che non ci piacciono e di guardare la vita con atteggiamento fiducioso, pro-attivo e ottimistico?
Ordina una birra leggera, se lo desideri. Un vino frizzante, un bicchierino di sherry. Un Cosmopolitan come Carrie Bradshow, o magari una Coca Zero. Ma se hai voglia di un rosso robusto, di una tripla cattiva, di un whisky d’annata, beh: non pensare neanche per un momento che quella sia roba che le donne non bevono.
Fatti tatuare una piuma, se ti piace. Una farfalla stilizzata, una fatina che svolazza, un dente di leone che sparge i suoi semi nel vento. Ma se preferisci un drakkar di 20 centimetri, un teschio con le orbite sgomente o un ferocissimo lupo mannaro, non osare rinunciarvi perché “non sono soggetti femminili”.
I miei figli (soprattutto il primogenito) non sono esattamente dei fan degli ortaggi. Le verdure invernali e quelle primaverili, in particolare, incontrano raramente il loro consenso per cui, se in estate non faccio troppa fatica a proporre dei contorni di stagione graditi e sani, nei mesi più freddi, proprio quando sarebbe ancora più utile fare il pieno di vitamine, mi trovo spesso in difficoltà da questo punto di vista. Il mio obiettivo resta quello di portare in tavola prodotti di stagione, salvo rarissime eccezioni che cerco davvero di centellinare il più possibile, preferibilmente bio. Ma se con la frutta ce la caviamo abbastanza bene (in questo post realizzato nell’ambito del progetto europeo Made in Nature sul biologico europeo, vi avevo raccontato perché e come scegliere la frutta di stagione biologica), con gli ortaggi facciamo più fatica.
Per riuscire a proporli con successo, allora, cerco di ricorrere a una serie di piccoli trucchi!
I bambini si abituano a quello che conoscono, e non possono amare ciò che non hanno mai provato.
Mi capita spesso che amiche, conoscenti o lettrici mi scrivano, per esempio, che avrebbero il desiderio di fare un viaggio itinerante coi loro figli, ma (pandemia a parte, sigh) non hanno il coraggio di provarci. “Perché i bambini hanno bisogno della routine in spiaggia, del villaggio con l’animazione, e via dicendo”. Oppure mi sento raccontare con una certa amarezza di bambini che passano i pomeriggi davanti ai video dello youtuber di turno o che hanno bisogno necessariamente di un dispositivo elettronico per ingannare l’attesa al ristorante, in aeroporto, dal medico etc (sempre Covid permettendo, stra-sigh), “ma purtroppo lo fanno tutti i bambini della loro età, sai com’è”.
Io invece penso che, entro i confini del comune buon senso e al netto delle inevitabili preferenze personali, finché sono relativamente piccoli i bambini si abituano a quello che conoscono. Se a un bambino vengono proposte sempre e solo vacanze al mare, macchinine giocattolo (tanto per fare un esempio stupido) e intrattenimento a base di cellulare, è scontato che le volte successive tenderà ad aspettarsi più o meno le stesse cose: in ferie “si va” al mare, al ristorante si guardano i video, al compleanno mi regaleranno delle macchine.
Il punto non è, meglio precisarlo, imporsi di cambiare le proprie abitudini di famiglia: se le vostre vacanze “stessa spiaggia, stesso mare” vi rendono felici, non c’è alcuna ragione per cui dobbiate iniziare i vostri figli a qualcosa di diverso. Se amate i video di youtube, o comunque vi sta benissimo che i vostri figli impieghino il loro tempo libero guardandoli, non pensateci e basta. Ma se a volte vi sentite di stare rinunciando a qualcosa che amate troppo, o viceversa, di essere costretti in dinamiche che detestate, ma che vi appaiono inevitabili solo perché “sai, sono bambini!”, sappiate che forse vale la pena fare un tentativo per cambiare lo status quo.
Ve lo dico, semplicemente, perché lo vivo da sempre sulla mia pelle: fin da quando i miei figli erano molto piccoli, uscire fuori a cena rappresenta un’esperienza stressante e qualche anno fa era proprio un mezzo calvario. La stanchezza generale trasformava l’uscita in un vero strazio, un cocktail esplosivo di ansia, capricci, imbarazzo e nervosismo. La stessa cosa valeva quando si trattava di fare un giro per negozi assieme a loro, per fare acquisti non rimandabili. Eppure, come mi facevano notare in tanti, non mi perdevo d’animo davanti a una mostra d’arte, un’escursione in natura o a un viaggio all’estero, magari itinerante o con tante ore di volo. La verità è che per me uscire a cena non è mai stato davvero necessario: in passato era il pretesto per stare con gli amici di sempre, ma ad eccezione di determinati locali particolarmente originali o amati, per me erano importanti la compagnia e il cibo (e i beveraggi!), non la location. Ancora adesso preferisco di gran lunga un picnic all’aperto o un delivery in buona compagnia, e di conseguenza è questo che mi è sempre risultato “facile” assieme ai miei figli. Stesso discorso per lo shopping e le passeggiate “per vetrine”, che non mi sono mai piaciuti particolarmente e che ho totalmente abolito negli anni (diventando invece una vera campionessa degli acquisti sul web, dove riesco a scovare sempre quello di cui sono in cerca).
Questo per dire che inesorabilmente i miei figli detestano cose che per alcuni coetanei sono esperienze del tutto comuni e spesso molto piacevoli – come un pomeriggio al centro commerciale o 15 giorni di vacanza fronte spiaggia – e sono invece avvezzi a cose che altri giudicherebbero “non da bambini”, come un’escursione in montagna, una visita in un museo, un tour itinerante con 7 cambi di hotel. Perché i bambini, e vengo al punto, non hanno esigenze precostituite o stereotipate, ma si adattano e si abituano alle esperienze che fanno insieme alla loro famiglia.
Non date per scontato che per un bambino l’unica villeggiatura appagante sia il mare, o magari il villaggio con il miniclub. Non rinunciate a musei e teatri (sempre alla faccia del Covid, sob e strasob!) perché “non sono cose per bambini”. Non convincetevi che certe esperienze vi siano precluse a prescindere o siano, viceversa, inevitabili solo perché avete dei figli piccoli. Continuate a fare quello che amate e ad evitare quello che vi ripugna, assieme ai vostri figli, con buon senso e rispettando la loro piccolezza, i loro ritmi, la loro fisiologia. E vedrete che saranno felici assieme a voi, pronti a scegliere, tra qualche anno, quello che a loro volta preferiscono e quello che proprio invece non li appassiona.
Come stanno i nostri figli?
Un anno della nostra vita è ormai trascorso in sgradita compagnia del Covid 19. Un anno che, nell’economia delle esistenze di bambini che di anni ne hanno 7 o 8, o magari ancora meno, ha un peso specifico non indifferente. Ci saranno tanti bambini, suppongo, che la vita “di prima”, la vita normale, attualmente neanche la ricordano.
Da molti mesi, ormai, di fronte alle piccole e grandi “crisi” dei miei figli, mi ritrovo a chiedermi se e quanto dei loro problemi dipenda effettivamente dalla pandemia, dalle limitazioni, dal sostanziale isolamento in cui vivono ormai da tanto tempo. E quanto, invece, non prescinda da questo, non sia magari una normale implicazione della loro crescita e del loro innato temperamento, con cui avremmo in ogni caso dovuto fare i conti. O ancora quanto, ahimè, non sia forse responsabilità di noi genitori, a nostra volta fiaccati da questa specie di incubo distopico nel quale siamo piombati un anno fa.
Davide e Flavia stanno bene, per carità. Ma non ho potuto fare a meno di notare la (ri)comparsa di fragilità, preoccupazioni e ansie: recrudescenze di antiche paure (del buio, della solitudine, dei brutti sogni), risvegli notturni, picchi occasionali di aggressività, onicofagia, periodiche difficoltà con il cibo, ansie alterne legate alle loro pur ampiamente soddisfacenti prestazioni scolastiche, e in particolare ai compiti per casa. Niente di estremamente allarmante, per il momento, né di totalmente estraneo al loro passato di bambini amati e sereni (mi auguro!) ma sensibili, come ce ne sono miliardi in questo pazzo mondo che abbiamo il privilegio di abitare.
Solo che adesso, inevitabilmente, mi ritrovo a inquadrare la situazione con un certo pregiudizio, osservando la realtà attraverso il filtro della consapevolezza. Avremmo vissuto le stesse difficoltà anche senza il lockdown, senza i compleanni in solitaria, senza la ridotta attività motoria, senza la separazione prolungata da tanti amici e familiari, senza gli interminabili mesi di Didattica a distanza (nell’ultimo anno, Davide e i suoi compagni di terza elementare hanno frequentato la scuola per 8 settimane in tutto, prima di finire, come siamo attualmente, di nuovo dietro a un computer)?
Non conoscerò mai la risposta, perché ovviamente la risposta non esiste. Il tempo ci dirà soltanto quante ferite ci resteranno da curare, per noi e per i bambini, inclusi quelli che, per fortuna, il virus non lo hanno mai incontrato da vicino.
Figli piccoli, problemi piccoli. Questo dice l’adagio, che però a me ha sempre dato un certo fastidio.
Non solo perché svilisce la fatica dei neo-genitori e avvilisce le loro speranze e prospettive, ma anche perché, in generale, trovo poco sensato lanciarsi in una gerarchia dei problemi e delle sofferenze. Come a dire che non tutte le difficoltà sono meritevoli della stessa empatia, che non tutte
Non è vero che occuparsi di un neonato sia una responsabilità meno gravosa che seguire un bambino, o magari un adolescente.
Al contrario, è vero semmai, e in quasi un decennio di permanenza controversa nella nebulosa delle madri e dei padri me ne sono definitivamente convinta, che sulla primissima infanzia e sui neo-genitori viene esercitata una pressione sociale (e social) indicibile, che inspiegabilmente si estingue tanto, e quasi all’improvviso, quando i bambini raggiungono l’età scolare.
Se per i primi anni di vita di tuo figlio vieni bersagliata da mille critiche, domande non richieste, indicazioni e teorie, e ti trovi a misurarti con aspettative del tutto irrealistiche, a un certo punto – puf – sembra che i ragazzini e la loro educazione (anche e soprattutto affettiva) diventino una questione paradossalmente secondaria. Come se, una volta che li hai svezzati e inseriti a scuola, “il più fosse fatto”.
Le madri fresche di parto (chissà perché i padri, novellini o già rodati, non sembrano mai così inclini a preoccuparsi o discutere delle scelte in fatto di maternage – che in effetti non si chiama “paternage”, e qualcosa vorrà pur dire) si scannano nei gruppi e nelle pagine Facebook sul latte artificiale e sull’allattamento al seno, sul passeggino e sulla fascia, sul cosleeping e sul metodo “Fare la nanna”. Le casalinghe foraggiano i sensi di colpa delle “madri lavoratrici”, che a loro volta guardano le altre con una malcelata sufficienza. E giù trattati, sondaggi, editoriali e polemiche sull’importanza del nido, dei giochi montessoriani, destrutturati, naturali, sugli effetti a lungo termine del bonding madre-figlio, sull’alto contatto, sull’educazione empatica, sullo spannolinamento e via discorrendo. Se non pasci tuo figlio con germogli biologici da te prodotti con terriccio fertilizzato con il limo derivato dalle esondazioni del Nilo, sei una pessima madre. Se non stimoli adeguatamente tuo figlio parlandogli in sanscrito e sottoponendolo a giochi educativi e montessoriani, sei una madre degenere. Se ti perdi la sua recita di Natale all’asilo, meriti una convocazione dai servizi sociali.
Ma basta che i bambini raggiungano l’età scolare e la musica cambia. L’attenzione al ruolo dei genitori sbiadisce, i dibattiti e le dissertazioni in tema educativo e parentale smettono di suscitare interesse. Come se, una volta svezzati, questi ragazzini diventassero sostanzialmente e improvvisamente autonomi, e il ruolo delle loro additatissime genitrici finisse all’improvviso col diventare marginale, relativo, tutto sommato aleatorio nello sviluppo della personalità e nel benessere globale dei loro figli.
Difficilmente ci si imbatte in polemiche sull’alimentazione di bambini “grandi” e preadolescenti, sulla quantità e qualità del loro sonno, sulla quantità e qualità del tempo che le madri trascorrono con loro, degli stimoli che gli propongono, dell’empatia che riescono a mostrare nell’accudimento quotidiano. La scuola, che spesso si occupa dei bambini e dei ragazzi per la maggior parte della giornata, diviene l’oggetto principale delle discussioni e delle querelle sui social network. Il capro espiatorio dei problemi educativi, del bullismo, delle fragilità, dei vuoti e delle sofferenze di intere generazioni.
Nessuno, o quasi, sembra indignarsi o preoccuparsi se i ragazzini passano la maggior parte delle loro giornate lontani dai genitori, se trascorrono lunghe ore soli davanti a uno schermo, se si alimentano in modo casuale o malsano. Al massimo, dopo ogni tragedia presunta o reale che assurge agli onori della cronaca, ci si accapiglia per qualche giorno sull’uso della tecnologia e dei social nei ragazzini molto giovani, sull’opportunità di vigilare, limitare, filtrare.
Eppure, almeno secondo me, un bambino in crescita e poi un (pre)adolescente e un giovane adulto ha ancora più bisogno di avere accanto, e successivamente “alle spalle”, una guida attenta, un esempio consapevole, una sponda e un rifugio. Anche, e forse soprattutto, negli anni della sua vita in cui è assolutamente convinto di poterne invece fare a meno.
Paradossalmente, per come la vedo io, il “tempo di qualità e quantità” con i figli diventa ancora più prezioso e importante quando questi figli diventano un po’ più grandi, quando il processo educativo si fa serio e complicato, quando le influenze dall’esterno diventano significative, nel bene e nel male.
E invece mi sembra che, in nome della presunta “autonomia” dei figli, la tendenza sia quella di crocifiggere una madre perché non allatta al seno, o perché rientra al lavoro con un figlio di pochi mesi, per poi assistere nella totale indifferenza al destino educativo di intere generazioni di bambini, ragazzini e adolescenti. Senza interrogarsi sul ruolo che i genitori dovrebbero avere, sui principi cui ancorarsi, sugli stimoli (anche culturali!) da offrire, sui divieti sacrosanti da imporre, sulle esperienze da condividere con i figli.
Perché tanto, a quanto pare, una volta svezzati “sono grandi, ormai”.
Nel corso della mia vita, e non solo una volta, è toccato anche a me di avere a che fare col cancro, anche se (grazie al cielo) mai sulla mia stessa pelle. Come tante altre famiglie, come praticamente tutte le famiglie che conosco. E questo, mio malgrado, mi ha costretto a mettere in fila le cose che ho imparato sul cancro e che oggi, in occasione del #worldcancerday, mi è venuta voglia di condividere con voi:
1. I malati di cancro non sono dei “guerrieri”
Il cancro non è una guerra. Non è una battaglia in cui misurare il proprio valore, in cui resistere e trionfare a colpi di forza di volontà e di coraggio. Non “vincono” i malati più forti o più stoici. E non esiste una sofferenza “più dignitosa” di un’altra. Il cancro è una malattia terribile, che qualche volta guarisce grazie alla tempestività della diagnosi, alla disponibilità di cure efficaci, alla risposta positiva dell’organismo. Non certo perché il paziente si riveli un guerriero più valoroso (o un malato più dignitoso) di un altro. La retorica del guerriero è un colossale equivoco. E forse non è il modo più efficace per raccontare il cancro a chi osserva dall’esterno, né rende giustizia a chi invece si trova ad averci a che fare.
2. Il cancro è il prima e il dopo
Come una deflagrazione cosmica su scala ridottissima, un piccolo big bang personale e familiare. Quello che c’è stato prima, in un certo senso, non tornerà più, a prescindere dall’esito della malattia, dalla sua evoluzione, dalla prognosi che i medici snoccioleranno con più o meno empatia. Tutto quello che hai vissuto prima della diagnosi diventa, nella tua percezione, una specie di età dell’oro in cui ogni cosa era più leggera, più semplice, più lieta, per il solo fatto che in quel momento tu ancora “non sapevi”. Non che sia davvero così, naturalmente. Non che prima non ci fossero sofferenze anche intense, o ragioni serie per cui sentirsi in ansia e restare sveglio la notte. Ma una delle cose che ho imparato sul cancro è che l’esperienza della malattia cambia drasticamente la tua percezione della realtà. È uno spartiacque definitivo e irremovibile. L’origine di una incommensurabile nostalgia. E a volte ti sembra assurdo che il mondo, nel frattempo, continui a rotolare nello spazio come se niente fosse accaduto. Che il resto della gente continui ad andare avanti apparentemente come prima. Ignara e inconsapevole. Al sicuro.
3. Si fa presto a dire “diagnosi precoce”
La diagnosi precoce è importantissima e salva vite a migliaia, ma non sempre è possibile. Spesso il cancro non può essere diagnosticato precocemente, a volte non esistono sintomi d’esordio (o, se esistono, sono difficili da riconoscere) e, in assenza di segnali d’allarme, non possiamo passare la vita a farci ispezionare ogni organo del corpo. Quello che possiamo fare è cercare di condurre uno stile di vita sano, di prenderci cura di noi e di chi amiamo, di stare all’erta. E pretendere che si investa il più possibile nella ricerca, che è la sola strada davvero efficace che abbiamo per rendere il cancro sempre più curabile.
4. L’esperienza dell’impotenza
Il cancro ti fa sentire prima di tutto impotente. Ti fa provare rabbia, angoscia, frustrazione, terrore. Un dolore che non pensavi possibile, che ti stritola dentro e ti brucia fuori. Ma soprattutto, ti condanna a un’impotenza lacerante. Vorresti abbattere il muro che imprigiona chi sta soffrendo, vorresti farti carico del suo male e portare quel peso assieme a lui. Alleggerirlo, sollevarlo, condividerlo. E vorresti rapire chi è vicino ogni giorno alla persona che sta male e vive quel calvario con lei. Portarlo lontano, almeno per un po’. Vorresti, ma non lo puoi fare. E allora, semplicemente, stai lì e ami, perché è tutto quello che ti è concesso. Stai lì e ami, chiedendoti in ogni istante se lo stai facendo in un modo davvero giusto e utile, se quello che fai e quello che sei non sia invece troppo poco. Sapendo che in realtà tutto quello che farai sarà sempre troppo poco. Stai lì, provi ad amare di più e più forte, e metti da parte la tua pena, perché sai che non è niente rispetto a quella di chi sta male davvero, e di altri attorno a te. Ma la tua pena alla fine viene fuori, e ti travolge. Senza che tu possa fare altro che attraversarla, solo e impotente.
5. La vita è un soffio. E noi occidentali lo avevamo dimenticato
Fino alla devastazione della pandemia, noi occidentali contemporanei, colti da un progressivo delirio di onnipotenza, ci eravamo forse illusi di aver imbrigliato la malattia e aver dominato la morte. Di aver capito come governare la natura, in ogni accezione possibile. E oltre a fare danni incalcolabili al nostro pianeta, abbiamo censurato il più possibile l’esperienza della perdita, l’abbiamo rimossa con ogni mezzo dalla nostra consapevolezza collettiva. Ci siamo convinti inconsciamente che il progresso potesse pian piano farci accantonare il dolore, il lutto, la nostra stessa transitorietà. Dimenticando che fino a pochissime generazioni fa era scontato perdere dei figli ancora in fasce, piangere fratelli mai tornati da una guerra o non risparmiati da un’epidemia, seppellire figlie, mogli e madri non sopravvissute al letto da parto. Dimenticando che siamo caduchi e mortali, effimeri, anche quando ci sentiamo giovani e forti, come le foglie estive, appese a un ramo che danza nel vento. Siamo strumenti nelle mani dell’evoluzione, soggetti a leggi universali che non possiamo e non potremo mai sovvertire. E questa consapevolezza, soprattutto alla luce di quello che stiamo vivendo da un anno a questa parte, dovremmo forse recuperarla tutti insieme, non già per tremare di continuo nel terrore della fine, ma al contrario per vivere ogni giorno in pienezza e gratitudine. Senza dare per scontato quello che scontato, invece, proprio non è.
Negli ultimi anni, portare in tavola tre pasti al giorno è diventata per me una sfida impegnativa, in qualche caso addirittura frustrante. La difficoltà che incontro sta nella pretesa di conciliare i gusti e le esigenze nutrizionali di 4 persone diverse con le mie convinzioni in tema di sostenibilità ambientale, con le necessità di salute e ovviamente con il bilancio familiare. Nel riuscire a servire, in poche parole, qualcosa che sia appagante per tutti, ma salutare e allo stesso tempo sostenibile, magari senza svenarsi. Una obiettivo che spesso, per la sottoscritta, si rivela semplicemente impossibile.
Io, per esempio, ho bisogno di contenere il più possibile l’apporto di carboidrati, ma d’altro canto mi sforzo da anni di mangiare carne il meno possibile, e faccio attenzione alla quantità di imballaggi e alla provenienza degli alimenti che scelgo. Per ragioni di salute, però, devo limitare anche i grassi, quindi non posso indulgere eccessivamente in uova e latticini, di cui peraltro sono particolarmente ghiotta. Il resto della famiglia, d’altro canto, preferisce almeno a pranzo mangiare il classico primo, che spesso diventa un piatto unico per riuscire a somministrare a tutti legumi e verdure invernali, che altrimenti non sarebbero affatto graditi. Non sto a dirvi, inoltre, che un altro mio preciso obiettivo consiste nel limitare il ricorso a piatti pronti o processati, di cui comunque ogni tanto non riusciamo a fare a meno, che si tratti delle polpette svedesi surgelate o di un pasto da asporto della gastronomia sotto casa.
Se avessi tempo, volontà ed energie sufficienti, potrei sbizzarrirmi nella preparazione quotidiana di zuppe, verdure, insalate, vellutate e minestre da affiancare alla “cucina standard”, a cui, inevitabilmente finisco col dare la priorità. Ma non è di certo il mio caso, e la realtà è che spesso mi ritrovo a dover scegliere tra una serie di compromessi possibili: arrendermi a un pasto carnivoro, ma che magari è rapido da preparare e rispondente alle mie esigenze nutrizionali. Oppure rassegnarmi a mangiare un pasto che è sì vegetariano, ma troppo processato oppure non esattamente “salubre” o magro. O ancora, e forse questa è l’opzione che mi dà più fastidio, piegarmi al prodotto fuori stagione, che magari “risolve” un contorno, ma tradisce di fatto molti dei miei principi basilari.
Se con i miei commensali spesso me la cavo, per quanto riguarda me stessa non capita di frequente di sedermi a tavola e sentire che sto mangiando davvero “la cosa giusta”, in termini sia di impatto sull’ambiente che di apporto calorico e nutrizionale e di appagamento del gusto. L’obiettivo di sentirmi in forma e soddisfatta e allo stesso tempo “rispettare l’ambiente” e non spendere una fortuna, mi sembra sempre più spesso una chimera irraggiungibile.
So che molte e molti “food influencer”, o semplicemente persone più organizzate di me, si dedicano a una meticolosa preparazione di menu settimanali e provviste di cibo pronto (o quasi) per l’intera settimana. Personalmente, però, non sempre ho voglia di investire il mio prezioso tempo libero ai fornelli. Mi capita di farlo, certo, ma non è una costante. Ci sono molte altre cose che si contendono il mio tempo, a cominciare dai giochi coi miei figli, dai miei amati libri, dalle serie TV.
Voi come fate? Cosa guida le vostre scelte e abitudini alimentari? Riuscite a trovare la quadra, oppure cedete inesorabilmente al compromesso? Forse sono io che pretendo troppo dalla sottoscritta. Non sarebbe la prima volta, d’altra parte.
Riuscire a staccare i bambini dal cellulare e dalla TV non è un problema che vivo in modo particolare, dal momento che i miei figli, di 8 e 6 anni, non utilizzano (ancora) videogiochi, smartphone e tablet, e che guardano la TV – che amiamo tutti in famiglia, specialmente i film di animazione – ogni giorno, ma con precisi limiti. Eppure, proprio in virtù della nostra esperienza relativamente “libera” dagli schermi e sulla base delle alternative che siamo sempre riusciti a trovare, penso che possa essere utile condividere alcune idee e soluzioni su come staccare i bambini dal cellulare e dagli altri dispositivi elettronici. Soprattutto alla luce del periodo particolare che stiamo vivendo, tra Dad, restrizioni varie e maltempo incessante.
1. Maxi scatola con materiali creativi
Niente di più semplice: prendete uno scatolone o un contenitore capiente (noi abbiamo un contenitore gigante di Ikea di quelli trasparenti) e riempitelo con diversi materiali, anche di recupero: cartoncini colorati, legnetti “da gelato”, scovolini di ciniglia, occhietti mobili autoadesivi, glitter, pon pon di varie misure, vecchi bottoni, ritagli di stoffa, piccole perforatrici, colla, forbici con punta arrotondata, nastro adesivo, pennelli e colori di ogni tipo: tempere solide, acquerelli, pastelli a cera etc. Difficilmente i bambini riescono a resistere al potere della creatività, e spesso riuscirete a staccarli dal cellulare o dalla TV semplicemente tirando fuori il vostro “scatolone magico”. Noi usiamo con soddisfazione questo stratagemma da anni, ne abbiamo anche una versione “mini” da usare fuori casa durante viaggi, gite o addirittura per le attese al ristorante.
2. Enigmistica per bambini
L’editoria per bambini è diventata, negli ultimi anni, un’autentica miniera di meraviglie. E non vale solo per libri e fumetti veri e propri, ma anche per libri-gioco e albi di enigmistica per bambini di ogni genere. Ce n’è davvero per tutti i gusti, dai cruci-puzzle ai labirinti, dai crittogrammi per bambini ai cerca/trova, passando per gli intramontabili “trova le differenze”. Scordatevi, insomma, i vecchi album da colorare un po’ tristi, con le figure stampate in modo approssimativo, e preparatevi a entrare in un mondo di colori, divertimento e creatività senza fine.
3. Paste modellabili
Non pensate solo alla “vecchia” plastilina! In commercio si trovano ormai tanti prodotti di qualità e atossici che permettono di scatenarsi con la creatività in totale sicurezza e che a mio parere sono davvero perfetti per riuscire a staccare i bambini da cellulare e tv. Potete ricorrere ai grandi classici come il “Das”, oppure utilizzare soluzioni fai da te come la pasta di sale o quella a base di amido di mais e bicarbonato, di cui troverete in rete molte ricette valide. Negli ultimi tempi Davide e Flavia (e anche la loro mamma!) amano molto i prodotti tipo “clay foam” o altre paste modellabili leggere, che dopo l’uso si seccano e si induriscono all’aria senza però guastarsi o alterarsi. In commercio potrete trovare kit già pronti con le relative istruzioni oppure panetti di colori uniformi e miscelabili. Non solo regalerete ai vostri figli un’esperienza sensoriale piacevole e appagante, ma darete loro la possibilità di realizzare pupazzetti o altri oggetti utilizzabili nel tempo per giocare.
4. Staccare i bambini dal cellulare… con gli origami
Anche gli origami si prestano perfettamente a intrattenere i bambini di varie età senza ricorrere per forza alla TV. Bastano un po’ di carte colorate e un piccolo manuale, o delle schede che potete scaricare dal web. Partite, ovviamente, dalle opzioni più semplici, collaborando e supervisionando il lavoro, per poi eventualmente procedere verso progetti più arditi, flotte di aerei di carta o veri e propri libri tematici di origami, come questo dedicato a Harry Potter.
5. Perline da stirare
Sono un po’ “messy”, direbbero gli anglofoni, nel senso che saltellano e rimbalzano dappertutto e rischiate di ritrovarvele ovunque. Ma le perline da stirare sono economiche, colorate, divertenti e creative, e si prestano anche alla realizzazione di collane, bracciali etc. Noi abbiamo comprato da Ikea un grande barattolone di perline ormai molto tempo fa, ma ne abbiamo ancora tante pur avendole usate spesso, soprattutto durante i recenti lockdown. Ovviamente dovrete provvedere voi stessi alla stiratura delle creazioni.
6. Adesivi riposizionabili e trasferelli
Stickers e trasferelli sono altri alleati perfetti per riuscire a staccare i bambini dal cellulare o dalla TV, non solo in casa ma anche durante i lunghi viaggi o al ristorante. I miei preferiti sono gli albi della Usborne (una casa editrice per bambini con un catalogo ricchissimo e di grande qualità, semplicemente strepitoso e con prezzi contenuti), come la serie di bamboline e personaggi da vestire e “animare” con gli adesivi riposizionabili o i libri – scenario con centinaia di coloratissimi trasferibili, che mi riportano ogni volta alla mia infanzia. Un’altra opzione sono i tatuaggi temporanei, purché siano sicuri, anallergici e atossici.
7. Carte cancellabili
Sempre della Usborne, vi segnalo inoltre le carte e i libri-attività su cui è possibile disegnare o scrivere più e più volte con pennarelli cancellabili (sono inclusi nella confezione, ma si possono usare semplici pennarelli per lavagne bianche e poi cancellare con una salvietta o un fazzoletto umido). Ci sono gli animali da disegnare e le carte gioco, sempre con un piccolo prezzo e riutilizzabili potenzialmente all’infinito.
8. Scratch art
Fidatevi se vi dico che neanche voi riuscirete a resistere: gli scratch book sono dei libri o albi (ma esistono anche fogli sciolti, blocchetti e finanche calamite o adesivi) con la superficie nera che può essere grattata via con appositi bastoncini, rivelando al di sotto colori brillanti, a volte anche metallizzati o glitterati. Un passatempo divertente e “magico”, perfetto per staccare i bambini dal cellulare almeno per un po’!
9. Rompicapo e flipper
Se i vostri figli sono un po’ nerd come il mio primogenito, ameranno giochi di abilità da fare in solitaria (o in compagnia, perché no?), che in qualche modo somigliano ai “videogiochi”, ma sono analogici, e offrono pertanto una diversa esperienza a livello sensoriale. Mi sarebbe sempre piaciuto proporre anche qualcuno dei vecchi “giochi ad acqua” tanto popolari nella mia infanzia, ma non sono riuscita ancora a trovarne di soddisfacenti.
10. Piccoli manuali per disegnare
Se il classico foglio bianco coi pastelli colorati non funziona, o non riscuote più il successo di un tempo, provate a staccare i bambini dal cellulare proponendo loro un manuale di fumetti o disegno. Ce ne sono, per esempio, per imparare a disegnare gli animali, o per utilizzare le proprie mani nel disegno. Per la generazione abituata ai tutorial, sarà divertente cimentarsi ogni tanto con delle istruzioni stampate!
Questa era l’ultima delle mie alternative al cellulare e al tablet per bambini, creative e low cost, anche se ovviamente le idee sono potenzialmente infinite (cucito per bambini, cucina, esperimenti scientifici, kit di “fossili” da scavare etc, costruzioni, puzzle 3d etc etc). Voi avete altri suggerimenti? Come riuscite a limitare il tempo che i vostri figli trascorrono davanti a uno schermo?
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