Se in questi mesi vi sarà capitato, come a me, di accompagnare uno dei vostri anziani genitori a ricevere il suo vaccino per il Covid, avrete forse provato la mia stessa, inedita, sensazione. Un misto di tenerezza e straniamento, soprattutto per chi, come la sottoscritta, è abituata da anni a frequentare i centri vaccinali insieme ai propri figli piccoli. Vedere decine di uomini e donne anziani in attesa tutti assieme, talvolta incerti o titubanti, accompagnati, indirizzati, in qualche caso condotti o scortati dai propri figli, è stata un’esperienza nuova, a tratti commovente.
Silvana Santo - Una mamma green
Ci sono arrivata. E questa, nel bel mezzo di una pandemia mortale, mi sembra già una buona notizia. Ci sono arrivata sobria, coniugata e incensurata. E questa, dopo un anno praticamente ininterrotto di Dad e smart working di coppia, mi sembra già una ragione più che sufficiente per festeggiare. Ci sono arrivata, e sono tutt’altro che sola. E questo, forse, è per me il sollievo più grande. Conto gli amici veri sulle dita di due mani, ma sono dita ammantate di oro e zaffiri, lapislazzuli e perle, rare e preziose. Conto la mia famiglia ogni giorno, e la riconto ancora una volta per essere sicura che non manchi nessun altro. Quella famiglia che non mi sono scelta e che non sempre mi somiglia, ma che c’è, semplicemente, anche quando parliamo lingue distinte e inforchiamo sentieri che divergono verso orizzonti lontanissimi. Conto i figli che la vita mi ha affidato, le loro piccole dita, i loro sorrisi, le raffiche di baci e i loro sogni scintillanti. Conto gli anni passati accanto al loro papà, in pratica metà di quelli che ho vissuto.Ci sono arrivata stanca, ma indomita. Sempre più intenzionata a non sprecare il mio tempo, a non gettare via la mia vita, a non rassegnarmi. A non cedere ai compromessi che non siano davvero inevitabili. Ci sono arrivata piena di cicatrici, di nei, di tatuaggi. Di ricordi. Piena di ombelichi: un nodo per ogni strappo, un piccolo buco per ogni partenza.Ci sono arrivata risalendo spesso la corrente, con tanta fatica e talvolta con un accanimento masochistico. Mai per vezzo, però, e (quasi) mai per partito preso. Ci sono arrivata ancora idealista, ancora polemica, ancora curiosa. Ancora testarda come un mulo testardo. E di questo, in tutta onestà, non posso fare a meno di essere fiera.Ci sono arrivata con alcuni insanabili rimpianti e pochi, affezionati fantasmi. Ma ho preso l’abitudine di guardare in faccia gli uni e gli altri, e forse proprio per questo mi fanno molta meno paura di un tempo. Ci sono arrivata con tantissimi dubbi, ma le poche certezze che coltivo sono ormai salde e preziose, resistenti e ostinate come una barca vichinga di Floki, il costruttore di navi.Ci sono arrivata, e non vivo nel posto che sognavo, non conduco la vita che sognavo, non faccio il lavoro che sognavo. Eppure cerco di somigliare ogni giorno di più alla persona che sogno da sempre di riuscire a diventare. E questa, forse, è la cosa che conta davvero.
Da oggi “c’ho” (due volte) vent’anni,
“E andare un passo più avanti, essere sempre vero
Spiegare cos’è il colore a chi vede bianco e nero”.
Gli ultimi mesi, a casa nostra, sono stati difficili e molto stancanti. Alla situazione ormai estenuante che tutti condividiamo da un tempo che mi sembra interminabile, si sono aggiunti grandi e piccoli problemi, preoccupazioni, inconvenienti da risolvere. Rogne di qualsiasi tipo. Nulla di irrimediabile, per fortuna, ma lo stress e la fatica (soprattutto psicologica) si sono fatti sentire con forza, per i grandi e per i piccoli di casa.
Non è stato, naturalmente, l’unico periodo difficile da quando condivido l’esistenza con Davide e Flavia. Come qualsiasi altra famiglia, in questo decennio abbiamo dovuto confrontarci con lo stress, la malattia, il lutto. Contrasti, problemi di lavoro, abbandoni: alti e bassi, come sempre. Come tutti, appunto.
Nelle ultime settimane, “approfittando” dell’ennesimo periodo in zona rossa (e anche per favorire un minimo l’elaborazione del nostro lutto per Artù) ho deciso di provare una nuova esperienza: allevare farfalle con i bambini! Ecco quali sono, per me, i motivi per vivere questa avventura, e qualche informazione pratica su come procedere.
Quando sarete grandi, mi piacerebbe che pensaste a me ogni volta che vedrete qualcuno impegnato nel gesto arcaico e semplice di accendere una candela. Mi piacerebbe che vi tornasse in mente la luce calda che tremola in casa nostra nelle sere d’inverno e nei pomeriggi nuvolosi, il rivolo di fumo che si alza leggero ogni volta che soffio piano sulla fiamma. Vorrei che, quando sarete grandi, davanti a una candela accesa pensaste d’istinto alle mille candeline profumate e alle lucine a forma di stella della vostra mamma.
Mi piacerebbe che, una volta cresciuti, vi rimanesse impigliata nella memoria qualcosa dei libri e dei film che abbiamo preferito. Che se un giorno, per caso, vi trovaste a posare lo sguardo su un libro di Doyle, un sorriso vi scappi in automatico dalle labbra, ripensando a vostra madre che “faceva le voci” per farvi sbellicare nei vostri letti a soppalco, la sera prima di dormire. Che ogni tanto, senza ragione, vi tornasse alla memoria una filastrocca di Rodari o di Julia Donaldson, e che avesse esattamente la voce che ho io adesso che siete ancora piccoli.
Quando sarete grandi, vorrei che i biscotti con le gocce di cioccolato restassero nel vostro immaginario “i biscotti che faceva la mamma”. Mi piacerebbe tanto che, ogni volta che in una qualunque parte del mondo conosciuto il vostro naso intercetterà il profumo di cookies, si attivasse una sinapsi nella vostra memoria. Una sinapsi al sapore di burro, zucchero di canna e cioccolato fondente.
Sarei felice e grata se un giorno vi venisse spontaneo seminare post-it colorati con pensieri d’amore nelle tasche delle persone che amerete, ricordando di quanto vi piaceva trovare all’improvviso quelli che io, adesso, nascondo per voi.
Sarei immensamente grata alla vita se, in un futuro che immagino più lontano di quanto forse non sia in realtà, vi ritrovaste a pensare a me quando qualcuno ripeterà una frase di Silente, o citerà distrattamente Il Signore degli Anelli. Se passeggiando dentro un museo qualunque, di qualunque città del mondo, solo per un momento poteste sentire la mia presenza, il mio ricordo tangibile. E lo stesso davanti a una striscia dei Peanuts, una vignetta di Rat-Man o di Calvin e Hobbes, un episodio del Trono di Spade. O quando mai nelle orecchie dovesse risuonarvi la musichetta di Totoro o quella ninna nanna che vi canto da anni, così apparentemente fuori contesto, così dissonante rispetto alle nostre radici. All’improvviso, senza il bisogno di dirlo a nessuno, come un rigurgito privato di banalissima serenità.
Spero che il tempo mi sia amico. Che cancelli dal vostro cuore le volte in cui vi ho urlato contro. Le volte in cui vi ho deluso, quelle in cui non sono stata all’altezza. Quelle in cui vi ho fatto paura. Le volte in cui non sono riuscita a nascondere al vostro sguardo l’oscurità che ogni tanto mi si agita in corpo, le mie debolezze inguaribili, i miei cronici sensi di colpa. Spero che il tempo sia buono con me e che, tra tutte le cose che vi ho dato, vi lasci ricordare, quando sarete grandi, le più dolci, le più lievi e le più feconde.
Quando ho scoperto di essere incinta per la prima volta, ho sperato con forza che fosse un maschio, e ho provato un reale sollievo quando ho saputo che sarebbe nato Davide. Non mi sentivo proprio attrezzata per essere “madre di femmina”. Io che non coltivo interessi tanto “femminili” (stando ai pregiudizi più diffusi, perlomeno). Io che non ho mai avuto l’abitudine, e forse neanche l’occasione, di condividere con mia madre quelle attività considerate prettamente “da donna”, che si tratti di una sessione di shopping o di una seduta dall’estetista. Io che in effetti non ci sono mai andata, dall’estetista, e che faccio shopping soltanto online. Io che sono cresciuta con amiche preziose, ma frequentate quasi solo in comitiva, con la compagnia sempre presente dei nostri amici, dei nostri rispettivi fidanzati, che erano allo stesso tempo amici di tutte le altre. Con la compagnia dei maschi, insomma. Io che non capisco un’acca di vestiti, trucco, borse, che non ho mai tinto i capelli in 40 anni. Io che alle commedie romantiche preferisco di gran lunga le saghe da nerd, io che da ragazza leggevo la Gazzetta dello Sport e giocavo al fantacalcio. Io che non so camminare sui tacchi e che ho un ricordo terrificante del mio addio al nubilato (non per colpa mia, questo si metta agli atti).
Mi sembrava, in un certo senso, che mi mancassero dei pezzi. Come avrei potuto rappresentare un qualche modello per una eventuale figlia? Come avrei mai saputo relazionarmi con lei con empatia ma senza immedesimazione, con cameratismo ma senza una pericolosa distorsione del mio ruolo materno? Chi le avrebbe insegnato a pettinarsi, a darsi lo smalto, ad abbinare gli accessori? Mi avrebbe trovata patetica? Sarei riuscita a piacerle, a comprenderla e a trovare un terreno comune in cui affondare radici vitali per il nostro rapporto, e sulla cui base costruire solidi ricordi per la vita?
La seconda volta che mi sono ritrovata con un test di gravidanza positivo tra le dita, appena un anno dopo la nascita del mio primo figlio, il cuore mi ha colto totalmente di sorpresa. All’improvviso mi sono accorta di avere un bisogno irrazionale, insopprimibile e del tutto inedito di avere una figlia. Una necessità quasi fisica, acuita dalla consapevolezza che non avrei avuto altre occasioni, perché sapevo bene che una terza gravidanza non l’avrei cercata mai. Tutto a un tratto, il desiderio di ritrovarmi “madre di femmina” era così forte che si manifestava nei miei sogni, tanto che ho faticosamente convinto mio marito a non farci rivelare il sesso del nascituro, perché avevo paura di non godermi abbastanza la gestazione, se mi avessero detto che aspettavo un altro maschietto.
Dal giorno del mio secondo parto cesareo, quando un’ostetrica mi informò divertita che avevo appena avuto una femmina, sono passati poco più di sei anni. Troppo presto, decisamente, per dire se sono anche solo vagamente all’altezza del compito di crescere una bambina. Di essere sua madre. Però qualcosa l’ho imparata, e in effetti era anche ora che lo facessi. Per esempio, che la femminilità non è un luogo comune e che per intendersi – per amarsi – non è necessario coltivare gli stessi interessi. Sicuramente non sarò mai in grado di insegnare a mia figlia a camminare sui tacchi, né di intrecciarle i capelli come si deve. Forse lei non si unirà mai a me e suo fratello nella visione fanatica del Signore degli Anelli o di Guerre Stellari, e forse verrà presto il giorno in cui mi giudicherà sciatta e trascurata a causa del mio aspetto fisico. Ma quando penso alla donna che mia figlia diventerà, sono insindacabilmente certa che non smetterò mai di comprenderla, di supportarla, di incoraggiarla. Di sostenerla nel proprio cammino verso la conoscenza di sé e la sua piena realizzazione. Sperando che un giorno, almeno, possa appassionarsi a Games of Thrones.
Non sei un ragazzo, ma non sei più un bambino piccolo. Sei nell’età in cui tu, figlio, insegni già a me, madre, un sacco di cose nuove ogni giorno, eppure ti rivolgi ancora alla sottoscritta quando c’è qualcosa che vuoi conoscere o comprendere meglio. Quando il senso di una parola ti sfugge, quando una paura ti attanaglia, quando la vita ti mette di fronte a una novità che ti sembra troppo difficile da affrontare. Sei nell’età in cui mi passi i fumetti che hai appena finito e ti sta a cuore che io li legga davvero, in modo da poterti riferire la mia opinione articolata e sincera. Sei nell’età in cui mi reciti ad alta voce brani di libri che ti hanno colpito o ti hanno fatto ridere, perché ti rende orgoglioso e felice suscitare anche in me lo stesso interesse, la medesima risata. Sei nell’età in cui mi chiedi quale sia il capitolo di Star Wars che ho preferito finora, e se la mia risposta non combacia con la tua, indugi un momento appena per chiederti se non sia il caso, magari, di riconsiderare la tua scelta. Quell’età in cui insisti in ogni modo possibile perché io legga al più presto la tua ricerca scolastica sugli australopitechi, in cui proponi destinazioni di viaggio che possano appassionarci entrambi, in cui ti fa piacere prestarmi la tua nuova bicicletta, dopo aver cambiato l’altezza della sella apposta per me.
Sono una orgogliosa utilizzatrice di un lettore di libri digitali da circa un decennio. Ho deciso di passare agli ebook molto precocemente, quando in Italia era ancora difficile anche solo procurarsi un e-reader (il mio primo Kindle, infatti, l’ho acquistato direttamente dagli USA). Da allora, sono diventata una sostenitrice sempre più convinta dei libri digitali, nonostante la diffusa scuola di pensiero che vede i libri cartacei come “più romantici”, più fascinosi e così via. E che ritiene “l’odore della carta” come un fattore irrinunciabile. Io, invece, sono convinta che dei libri la cosa importante sia il contenuto e non il contenitore, e preferisco cercare piuttosto soluzioni concrete per riuscire a leggere di più e in modo più confortevole (visto anche che il tempo libero scarseggia). Ormai acquisto su carta solo i libri per Davide e Flavia (“solo” si fa per dire, visto che ne hanno centinaia!), le guide turistiche e i fumetti. Senza avere la pretesa di tentare di convincere i più scettici, vi spiego volentieri i miei otto motivi per passare agli ebook!
Se dovessi scegliere la cosa che mi ha salvato più spesso nella vita, che mi ha risollevato dal fondo più vischioso e tirato fuori dalle pozze di oscurità nelle quali ogni tanto mi ritrovo a sguazzare, non avrei molti dubbi. Non citerei l’amore, o l’amicizia, oppure la fede che a tratti mi ha accompagnato lungo il cammino. Non tirerei mai fuori la tanto inflazionata resilienza o la retorica “bellezza delle piccole cose”. Non menzionerei nemmeno la natura e gli animali, che pure, almeno per me, significano linfa e sollievo e libertà. E no, non mi limiterei di certo a chiamare in causa la famiglia, figli inclusi.
Quello che da tutta la vita mi salva con generosità – dalla vita in sé e pure da me stessa – probabilmente non è altro che la curiosità, associata a una dose straordinaria di ostinazione. La curiosità sfrenata che mi si agita dentro, rivolta potenzialmente a qualsiasi ambito dell’umana esperienza. La fame insaziabile di conoscenza e di emozioni, quella voglia indefinita di non sprecare tempo e occasioni, di “fare di più”, che pur nel dolore, nella solitudine e nello scoramento restituisce senso all’esistenza anche quando tutto o quasi sembrava perduto.
Non sono sicura di riuscire a spiegarmi.
Fatta eccezione dei momenti di assoluta prostrazione (per un lutto, per un abbandono, per una malattia importante), non ricordo di aver mai trascorso la mia vita in una condizione, nemmeno temporanea, di “stasi”. Né di aver mai superato una qualsiasi crisi personale senza un nuovo progetto al quale appassionarmi, per il quale documentarmi, studiare e ricercare soluzioni perfette e personali notte e giorno, per settimane, fino a farmi lacrimare gli occhi per la stanchezza. Fino ad aver imparato qualcosa di nuovo da custodire per sempre.
Se, come nell’ultimo estenuante anno, non possono essere i viaggi da organizzare, allora saranno altre iniziative di qualsiasi natura. Un nuovo tatuaggio da progettare, un angolo del tè da allestire in cucina, un microscopico acquario per le alghe Marimo. Oppure i bruchi da allevare, un nuovo foro alle orecchie, un recinto per tartarughe da approntare il giardino, la ristrutturazione della cameretta, un travestimento di Carnevale fai da te, una ricorrenza a tema Harry Potter, gli allestimenti di Natale. Una lavastoviglie da inserire “in qualche modo” nella microscopica cucina di un piccolo appartamento.
È questo, alla fine, che mi tiene viva anche nell’oscurità. Che rende i miei giorni sempre diversi, sempre densi, sempre necessari nonostante tutto: qualcosa di nuovo da imparare, qualcosa di positivo da realizzare per me, per la mia famiglia, per la mia casa. Un obiettivo da perseguire con determinazione, la speranza di attuarlo nel prossimo futuro e tante cose da studiare per riuscirci nel migliore dei modi.
La curiosità impastata di ostinazione. Che spero possa essere un giorno il mio lascito migliore per i miei figli.
Il post che avete appena cominciato a leggere è troppo lungo e sostanzialmente inutile. Ma il bisogno di scriverlo è stato per me irrefrenabile. Mi attirerà probabilmente critiche feroci e antipatie definitive, ma non mi interessa. È il lamento della madre di due bambini di 6 e 8 anni che hanno varcato le soglie della scuola per appena 10 settimane negli ultimi 12 mesi (viviamo in Campania e sì: qui è andata così, attualmente siamo di nuovo in Dad da un mese e mezzo di fila, oltre ad avere parchi, piazze e lungomari chiusi. Le scuole, primarie incluse, sono state chiuse, per scelta dell’amministrazione regionale, anche in zona gialla e arancione, anche prima che venisse introdotto il sistema di classificazione “a colori”), con conseguenze forse marginali sulla loro formazione, ma disastrose sul piano del benessere psicofisico, della qualità della vita, e degli equilibri familiari.
Vi sembra una conclusione esagerata? La lagna insopportabile di una “mamma pancina”? È solo perché non ci siete passati, e non avete davvero la più pallida idea di cosa voglia dire davvero.