Non ricordo nemmeno quando ho preso l’abitudine di rosicchiarmi le unghie e martoriarmi le “pellicine” delle ultime falangi. Per essere ancora più chiara, non rammento proprio la mia vita senza l’onicofagia, ma, in una ideale seduta di “mangiaunghie anonimi”, potrei rievocare facilmente i limitati periodi in cui sono stata libera da questa dipendenza. Nei decenni, tra smalti deterrenti, cerotti, guanti (e psicoterapie, anche se affrontate per altre ragioni), ho sperimentato molte volte il dolore pulsante delle infezioni, la mortificazione delle “mani impresentabili”, i commenti gratuiti e la frustrazione delle inesorabili ricadute. E allora, con leggerezza e senza pretesa di esaustività o autorevolezza medica, vi racconto qualcosa di un problema diffusissimo e sistematicamente sottovalutato, ma che può essere il sintomo di fragilità più generali, o il preludio di forme di autolesionismo più pericolose.
Silvana Santo - Una mamma green
Ho un figlio che, se una nonna gli offre dei soldi, ogni volta risponde: “Ma no, sei impazzita? Sono troppi! E poi me li hai già dati l’altra volta!”. E una figlia che, nelle medesime circostanze, sfodera tutto il suo candore per suggerire la sua soluzione: “Nonna, se Davide non li vuole, prendo io anche i suoi!”.
Ho un figlio che chiede il permesso prima di guardare “un cartone in più”, e che, se sono distratta, mi fa notare quando sarebbe decisamente ora di andare a dormire. E una figlia che, ogni sera che dio manda in Terra, mette in atto una tragedia greca quando le si chiede di spegnere la TV.
Se l’inverno mi ha tolto tantissimo e la primavera mi ha restituito molte cose – Capri e Roma, solo per dirne un paio – dall’estate appena iniziata mi aspetto una discreta dose di generosità. Piccole cose, tutto sommato, ma che attualmente mi sembrano immense.
Tornare su un aereo. Dopo una pausa di un anno e mezzo che a me è parsa eterna.
Mettere piede su suolo straniero, anche se magari soltanto per poche ore. Sarebbe per me come un ritorno alla vita, come un ritorno alla piena libertà. Chissà se riusciremo, incrociate le dita per me.
Mangiare fuori il più possibile, all’aperto e con le candele sul tavolo.
Bere tanto vino ghiacciato e qualche ettolitro di hugo.
Il parco di Pinocchio a Collodi è stata una delle attività della nostra vacanza in Garfagnana dello scorso anno (che vi avevo già raccontato in questo lungo post). Una di quelle che ricordiamo con maggior soddisfazione, in effetti, nonostante avessi letto in rete recensioni e testimonianze non sempre incoraggianti (e frutto, a mio parere, di una certa disinformazione a monte e di aspettative sbagliate sull’esperienza nel suo complesso).
Il parco di Pinocchio è un luogo in cui trascorrere una giornata in famiglia all’aria aperta, a contatto con la natura e immersi in un’atmosfera onirica e fiabesca, d’altri tempi. Ne vale la pena? Per noi la risposta è stata senza dubbio affermativa, anche se Pinocchio non è mai rientrato – non me ne vogliate – tra le mie storie del cuore.
Visti anche i costi del biglietto, è però importante, secondo me, capire bene cosa aspettarsi, in modo da decidere in piena consapevolezza se è un’esperienza che possa fare al caso proprio, e meritare l’investimento.
Comincio dunque col dirvi chiaramente cosa non troverete al parco di Pinocchio, e cosa, nel dettaglio, è invece possibile vedere e fare al suo interno.
C’è un pensiero che mi accompagna, senza farmi compagnia, da alcuni giorni.
Un pensiero per niente estivo e per certi versi censurabile, che è difficile condividere perché è difficile da ascoltare. Da fronteggiare.
Il pensiero del male che, inevitabilmente, finiamo col fare ai nostri figli.
È un’idea che tendiamo d’istinto a rimuovere, per fortuna, un po’ come cancelliamo, per la maggior parte del tempo, la consapevolezza della morte che ci attende inevitabile. La natura, nella sua infinita saggezza, ci garantisce una generosa dose di oblio e di dimenticanza, che ci consente di andare avanti in serenità e goderci l’esistenza un giorno dopo l’altro.
Lui è un piccolo promettente nerd, lei ha una grande fascinazione, ancora, per tutto quello che è luccicante, fluorescente e sfacciatamente kitsch. Scegliere un regalo per lei è relativamente semplice: basta attingere alla lista inesauribile di desiderata e richieste che va ripetendo di continuo, come un mantra. Anche un regalo per lui, in realtà, è un’impresa semplice: i suoi interessi sono cristallini e coerenti, duraturi in un modo che mi stupisce sempre, trattandosi di un bambino di appena otto anni.
A ciascuno il suo: ho due figli quasi coetanei, cresciuti a lungo in sostanziale simbiosi, ma che hanno passioni, gusti e attitudini spesso divergenti. Regali personalizzati per ognuno dei miei bambini, quindi. Ma anche proposte di intrattenimento variegate (seppur condivise), attività dedicate, finanche pasti talvolta distinti.
Nonostante tutto, è tornata la stagione delle ciliegie, quelle perfette e scure come amarene e quelle piccole, dure e ammaccate dalle intemperie. E mio figlio che le aspettava frementi, come sempre, da un anno intero, le ha salutate con un entusiasmo bambino e una gratitudine sincera, che mi hanno ricordato il valore dell’attesa e il potere straordinario dei desideri.
Nonostante tutto, mia figlia ha imparato a leggere. Ha ascoltato le urla festanti dei compagni al suono della campanella delle 13.30, ha riportato a casa complimenti e rimproveri, libri fitti di lettere sempre più coerenti, disegni e caramelle. E messaggi di piccola amicizia scritti in un italiano adorabile e perfettamente sbilenco.
Nonostante tutto, è di nuovo il momento dei tuoni in lontananza e dei temporali pomeridiani. Di gocce grosse come lacrime di bimbi piccoli che battono sui vetri mentre la luce si fa ocra e l’aria si fa calda e umida.
Ho continuato a cercare il mio gatto dentro tutti i gatti che non sono il mio. Lo cerco e non lo trovo, e ogni volta il dolore mi spezza il respiro e la delusione mi annebbia lo sguardo. Amo sinceramente tutti i gatti del mondo, ma non riesco – non ancora, perlomeno – a perdonarli di non essere il mio.
Ho fatto, da quando sono state allentate le restrizioni anti Covid, una moltitudine di gite, escursioni, visite guidate. Sono tornata in posti che a lungo ho chiamato casa e dai quali mancavo da anni, ho ripreso a circondarmi di arte, natura e bellezza, ho ritrovato amici e compagni di strada che in realtà, a quanto pare, non avevo perduto mai. Ho dormito finalmente, a distanza di mesi, in letti diversi dal mio. E ho scoperto che non è necessario condividere in diretta le esperienze che si vivono. Che si sta bene anche senza le stories con la musica a effetto, le foto e i post da affidare “al mondo” in tempo reale. Ho scoperto, più in generale, che le cose accadono e appagano anche se uno se le tiene per sé (e questa, in qualche modo, mi è parsa come un’epifania inattesa e rivoluzionaria).
Alcuni giorni fa mi hanno iniettato la seconda dose di vaccino. Il mio giovane marito under 40, poche sere prima, aveva ottenuto una fortunosa somministrazione monodose dopo una rocambolesca prenotazione all’open night vaccinale, alla quale ci eravamo applicati con un accanimento forsennato (come quando, nella vita precedente, c’era da prendere un volo in offerta o i biglietti di una partita speciale). Siamo tra i fortunati, insomma, che sono riusciti ad arrivare incolumi al momento della vaccinazione. Personalmente, e lo dico con un misto di incredulità, pudore e gesti apotropaici, non mi sono nemmeno mai trovata, ancora, nella condizione di dovermi sottoporre a un tampone per il Covid. Il che, in effetti, mi rende una specie di essere mitologico o di paria, vista l’esperienza collettiva che stiamo vivendo.
Vorrei vivere in un mondo in cui “come sei dimagrita!” non fosse considerato a prescindere un complimento. E neanche, se possibile, un normale argomento di conversazione. In cui smettessimo semplicemente di fare caso alle fisiologiche fluttuazioni di peso del prossimo, al punto da arrivare a farci suonare come “strana” qualsiasi osservazione sulla forma fisica di un’altra persona. Un mondo in cui l’informazione, il dibattito pubblico e le chiacchiere private prendessero a ruotare attorno al benessere psicofisico, al rapporto tra alimentazione e salute, alla sostenibilità ambientale del cibo, alla prevenzione di determinate patologie. In cui non ci sentissimo spinti a essere “magri”, tonici e “in forma” ma piuttosto a essere “sani” (e ci fosse intimamente chiaro che le due cose non sempre e non per forza coincidono).
Vorrei vivere in un mondo in cui scelte come quella di non tingersi i capelli grigi o non depilarsi le ascelle non venissero considerate come provocazioni, stranezze o atti di coraggio. Come vezzi anticonformisti, come manifestazioni di femminismo o addirittura dichiarazioni di una qualche indipendenza dalla “dittatura estetica” e dai “canoni mainstream”. Vorrei che fossero soltanto un’opzione come l’altra, altrettanto plausibile, neutra, normale, accolta dagli altri con sostanziale indifferenza. Senza alcuna connotazione di merito o di demerito, di presunta “forza” o, al contrario, di patetica scelleratezza. Vorrei che ciascuna (e ciascuno!) potesse fare le proprie scelte tricologiche, e magari cambiarle nel tempo, in assoluta e leggerissima libertà, senza doversi poi imbattere in commenti, osservazioni più o meno ipocrite e inevitabili dietrologie. Senza diventare in automatico un partigiano di una qualche fazione, un portabandiera di una certa filosofia di vita. Ma solo, banalmente, perché ha voglia di fare o non fare una cosa.
Vorrei vivere in un mondo in cui non esista il dress code. In cui tutti fossero d’accordo sul fatto che non c’è alcuna ragione naturale, fisiologica o “di rispetto”, per cui dentro un tribunale, in parlamento o ad un matrimonio sia necessario e nemmeno “opportuno” indossare una cravatta o un abito elegante. E, viceversa, andare a fare la spesa in abito lungo e tacco 12 non venisse considerata un’esagerazione, una stramberia o un atto di vanità. Vorrei vivere in un mondo in cui le uniformi avessero l’unico scopo di assicurare a chi le indossa una maggiore praticità, sicurezza e igiene, di garantire il massimo comfort o magari evitare sofferenze legate alle differenti possibilità economiche di ciascun individuo (penso per tante ragioni alle scuole, per esempio). In cui la reputazione di un avvocato, di una professoressa o perfino di una sposa prescindessero totalmente dallo stile degli abiti che sceglie per sé, e nessuno debba più sentirsi in imbarazzo o fuori contesto nel ritrovarsi con una mise più o meno elegante, ordinaria o alla moda di chi lo accompagna in una determinata esperienza.
Vorrei vivere in un mondo in cui fossero completamente rivisti i concetti di “decoro”, di “sciatteria”e trascuratezza. E che questi concetti non fossero più associati alle scelte personali in fatto di abbigliamento (la tuta è poco decorosa, il tailleur lo è abbastanza), acconciatura (la pinza per capelli non va bene, il fascinator invece sì), make up o calzature, ma solo all’accuratezza della propria igiene personale.
Vorrei, magari, vivere in un mondo in cui l’aspetto degli altri non fosse in alcun caso oggetto di giudizio, anche se inespresso. Un mondo in cui io stessa potessi liberarmi del tutto dai condizionamenti in tema di estetica e apparenze, che spesso persistono e mi insidiano nonostante i miei sforzi di consapevolezza e di libertà.
Vorrei vivere in un mondo che prima o poi esisterà, e che in alcuni luoghi e contesti – meno uniformati, meno provinciali e più disomogenei di quello in cui vivo io – forse esiste già ora. Il mondo che spero erediteranno e contribuiranno a costruire i miei figli.