Nelle prime settimane di quarantena, non senza imbarazzo, avevo scritto un lungo post in cui raccontavo che, tutto sommato e con l’importante eccezione dei viaggi, non sentivo poi così tanto la mancanza della mia vita “normale”. In qualche modo, purtroppo, le circostanze eccezionali in cui ci siamo trovati nostro malgrado avevano temporaneamente livellato le condizioni di vita di quasi tutti noi, almeno da alcuni punti di vista.
Le difficoltà che io – come tante altre persone, donne in primis – mi trovo ad affrontare ogni giorno da anni erano diventate all’improvviso un problema comune. Tutte hanno dovuto, dalla sera alla mattina, abituarsi a mettere ogni giorno un pranzo decente in tavola. Tutte, private senza preavviso dei servizi scolastici, si sono ritrovate a fare i conti con l’impegno quotidiano della supervisione dei compiti e della motivazione di figli talvolta reticenti, stanchi o pigri. Tutte hanno dovuto riconoscere, provandola sulla propria pelle, la difficoltà di conciliare la cura dei figli e della casa con il lavoro da remoto. E tutte hanno dovuto affrontare la spinosa questione della suddivisione del carico materiale e mentale di lavoro coi rispettivi compagni. Tutte, improvvisamente, hanno dovuto confrontarsi con la difficoltà di essere madri in un mondo che da un giorno all’altro, a causa dell’epidemia, si è ritrovato privo di servizi per le famiglie, di supporto, di sostegno. Tutte le madri italiane, esattamente come me.
Questo, in qualche modo, mi ha fatto sentire a lungo meno sola. Meno in difetto, meno penalizzata, meno sfigata. Meno perdente, se vogliamo. Finalmente, la mia realtà quotidiana non mi appariva come una vita “di serie B”, in un contesto arretrato e male amministrato. Finalmente, anche se solo per un po’, ho sentito che milioni di persone condividevano lo stesso fardello mio e di tante donne che vivono in aree d’Italia che sono penalizzate dal punto di vista dei servizi, della mentalità, delle opportunità e delle prospettive di lavoro. Ho sentito che tutti, adesso, avrebbero capito quanto può essere dura, perché lo avrebbero sentito sulla propria pelle, anche se solo per poche settimane. Per la prima volta, nonostante la disperazione per la malattia, per i morti, per il dolore di tantissime persone, ho coltivato l’illusione che le cose sarebbero davvero cambiate anche per noi, anche per me.
Solo che poi, grazie al cielo, la curva dei contagi si è appiattita, la quarantena è finita e la bolla in cui mi ero chiusa è scoppiata. E adesso, mentre tutti fremono per tornare alla rimpianta normalità, io mi trovo costretta a prendere atto che per molte di noi nulla cambierà in meglio, nemmeno questa volta. Che mentre un sacco di gente ritroverà festante la sua vita felice e moderna, chi era stato lasciato indietro – perché privato di servizi essenziali, di luoghi di aggregazione appaganti, di spazi di natura, di prospettive di lavoro e di guadagno dignitose e stabili, di un contesto culturale adeguato e moderno, di una scuola efficiente e performante – si ritroverà di nuovo, inesorabilmente, ad annaspare nelle ultime file.
Sarà per questo che il malessere che in tanti denunciavano durante il lockdown, io purtroppo lo sto vivendo adesso, in questa confusa e precipitosa “fase 2”. “Mal comune, mezzo gaudio”, dice un adagio che mi ha sempre dato fastidio e che raramente ho trovato condivisibile, ma che questa volta fotografa esattamente quello che ho provato io. Condividere temporaneamente i disagi, la solitudine e la fallace sensazione di inadeguatezza con un sacco di altre persone li aveva in effetti alleggeriti, e ora mi fa soffrire il pensiero che, per me (e non solo) la “riapertura”, anche quando sarà definitiva e totale, lascerà irrisolte tante questioni.