Dovevamo diventare migliori.
Più consapevoli. Più grati. Più altruisti.
Dovevamo diventare più empatici e – per usare una parola che ho imparato nei primi anni 2000 per l’esame di Ecologia e che adesso non sopporto perché si usa troppo e non sempre a proposito – più resilienti.
Ma come avremmo potuto, di fronte alla prova a cui siamo stati chiamati?
Ci siamo progressivamente schierati tutti contro tutti. Divisi in categorie – i genitori e i non-genitori, i giovani e i vecchi, i settentrionali e i meridionali, i responsabili e gli incoscienti, i dipendenti e le partite iva, gli insegnanti e tutti gli altri lavoratori – eppure soli, arroccati disperatamente nell’unico dolore che conosciamo, il nostro.
Siamo stati progressivamente travolti da un flusso ininterrotto e ridondante di informazioni, spesso contraddittorie, vaghe o semplicemente incomprensibili. A volte destinate a essere smentite, ridimensionate o corrette nel giro di poche ore o di pochi giorni. C’è chi ha finito col non sapere più a chi o a cosa credere.
Le nostre interazioni sono state affidate a mezzi aridi e spesso asincroni, fraintendibili e freddi. Basati su filtri che ci consentono di tirare fuori senza vergogna il peggio di noi, di additare il colpevole di turno, trincerati nel nostro anonimato informatico. Qualcuno si è abituato a urlare, tanti si sono ridotti a un silenzio difensivo e disarmato.
Siamo stati chiamati a prendere decisioni terribili. A vivere con il peso di responsabilità schiaccianti. A farci medici dei nostri genitori anziani, a diventare insegnanti, allenatori e psichiatri dei nostri figli piccoli. A scegliere il male minore tra due prospettive a volte disarmanti, a decidere con quale paura o con quale senso di colpa convivere, sapendo peraltro che qualsiasi scelta ci tirerà comunque addosso critiche, allusioni e commenti.
Abbiamo distillato lentamente il veleno della nostra frustrazione, inchiodati alle differenze che ci affliggono da ben prima del fantomatico “paziente zero”. Abbiamo stilato l’aberrante classifica dei privilegiati tra i privilegiati, facendo a gara per stabilire chi se la stia passando peggio e chi abbia più diritto a lamentarsi.
Forse poteva andare solo nel modo in cui è andata. O magari stiamo pagando un prezzo altissimo a causa di errori che potevano essere evitati. Io non lo so, ho smesso di chiedermelo molto tempo fa perché in fondo non ha alcuna importanza.
Vorrei solo trovare un senso a questa roba faticosa che è diventata la vita, ma forse è troppo presto. O più probabilmente, non esiste alcun senso: siamo solo animali, dopo tutto, in balia di meccanismi naturali più grandi di noi.
2 Commenti
Forse è così, un senso non esiste. Me lo dico anche io. Eppure quanto vorrei che non fosse così!
Hai descritto perfettamente la fotografia di questa società. Io penso semplicemente che, come accenni tu, doveva andare così. A me, cmq, è servito per mettere a fuoco rapporti logori e apprezzare molto altre conoscenze magari più superficiali.