Cosa resterà di questa (mia) quarantena

Lo sgomento insanabile, prima di tutto, per i tanti amici del nord che hanno perso qualcuno.

La difficoltà a mangiare dolci industriali, dopo che ho scoperto quanto sia semplice, in fondo, farmeli in casa da sola (che non sia poi così economico come pensavo, è un altro discorso).

La consapevolezza che il tempo che ci sembra di avere a disposizione, a volte, dipende anche dalla nostra personale percezione (In questi mesi sono riuscita a fare cose che da anni continuavo a rimandare per “mancanza di tempo” – sistemare il giardino, coltivare un minuscolo orto, imparare un sacco di ricette nuove, cucinare il triplo rispetto a prima, leggere un libro lunghissimo. Eppure non ho, di fatto, avuto molto più tempo a disposizione rispetto al solito, anzi: tra il lavoro che continua, i figli a casa da scuola, il marito in smart working, la didattica a distanza da supervisionare e una serie di problematiche familiari da affrontare, le settimane sono state comunque molto intense. Però è come se nella mia testa fosse scattato qualcosa, assieme alla quarantena. Come se nella mia percezione ora dovessi riuscire a trovare il tempo per una serie di cose sempre rimandate. E in effetti, in un modo o nell’altro, quel tempo è saltato fuori, spesso sottratto ai social o ad altri “sprechi” di cui non ero fino in fondo consapevole).

La striscia serale di Ortolani.

La certezza granitica di chi siano i miei amici. E di chi siano, in generale, le persone che contano davvero e sulle quali posso sempre contare. Di chi siano le persone che mi mancano quando siamo lontani ma che, in un certo senso, “non mancano” perché ci sono comunque.

La passione indiscussa per i meme e l’idiosincrasia insuperabile per le chat di classe.

L’orgoglio, finalmente conclamato, per il lavoro immane che, assieme al loro papà, sto facendo per crescere i miei figli. Un lavoro tutt’altro che esente da sbagli, eccessi, tentennamenti e distorsioni. Ma che è, in tutto e per tutto, il meglio che potessi fare con i mezzi a mia disposizione, portato avanti in buona fede, con abnegazione e con un amore che non sapevo di poter provare. Un lavoro che, nonostante i fallimenti, le delusioni e la quotidiana incertezza, porta ogni giorno frutti dolcissimi.

La gratitudine immensa verso le persone che mi amano. Nonostante i miei limiti, nonostante i miei sbagli, nonostante me.

La conferma, probabilmente superflua, che viaggiare per me non è solo un piacere. Ma qualcosa che definisce il mio quotidiano e la mia stessa natura. Qualcosa che trasforma l’esistenza in vita piena, qualcosa che mi rende la persona che sono e che dà un senso al tempo che mi è dato di vivere.

Una leggera dipendenza dall’alcol* (*Nota a beneficio dei servizi sociali e di mia madre: “si fa per scherzare”).

La recuperata cognizione del fatto che l’amore di coppia è l’esercizio quotidiano di una scelta, prima e più che un sentimento.

La convinzione sempre più radicale che i social network abbiano un potenziale immenso, spesso espresso pienamente, ma anche un lato oscuro che, se glielo permetto, tende a fagocitarmi, a deprimermi, a spegnermi.

L’insofferenza per gli insofferenti. Per quelli che si lamentano di chi si lamenta, che polemizzano con i polemici, che puntano il dito all’indirizzo di chi punta il dito.

La sensazione ormai definitiva che la nostra non sia una società per le donne e per le madri. Che manchino (spesso nelle donne e nelle madri stesse) una effettiva consapevolezza e la volontà individuale e collettiva di cambiare davvero le cose, garantendo a tutte la libera scelta, la possibilità di autodeterminazione, la conciliazione tra lavoro e famiglia e la parità di diritti e dignità rispetto ai maschi.

Svariati centimetri sul girovita, sulle cosce e sul mio sedere già esuberante.

La speranza ritrovata nelle possibilità della Terra di salvarsi dalle conseguenze delle nostre azioni e la certezza che, se un giorno l’umanità dovesse spingersi oltre il punto di non ritorno, il Pianeta riuscirà non solo a sopravviverci, ma a recuperare la sua purezza e la sua meraviglia.

La coscienza di essere una privilegiata che in 39 anni non ha mai dovuto sentire la necessità di tingersi i capelli.

La preoccupazione per lo stato di salute del giornalismo italiano, e la riconoscenza per certe fulgide eccezioni (Il Post, in primis).

La sorpresa sconvolgente nello scoprirmi capace di cucinare. E nello scoprirmi quel tipo di persona che, avendo bisogno o voglia di qualcosa da mangiare, invece che comprarlo si chiede “Come posso farmelo da sola”?

Lo straniamento totale nel sentirmi, forse per la prima volta nella vita e di sicuro solo temporaneamente, fortunatissima per essere nata a sud di questo scalcagnato paese.

La voglia puerile, egoistica e impossibile da soddisfare di avere, una volta tanto, qualcuno che mi risolva i problemi. Qualcuno che si prenda cura di me e mi dica “ora non preoccuparti, stavolta penso a tutto io”.

Le poke bowl, il pollo teriyaki, i nasi goreng, la paella, i ravioli cinesi, il sushi, i cinnamon bun, i chapati roll e tutti gli altri piatti stranieri che ho preparato e gustato, per sentirmi comunque “altrove”, in qualche modo. A contatto col mondo, col diverso, col distante. Nonostante tutto.

La paura di perdere qualcuno. La constatazione di non poter salvare tutti. L’impotenza. La rassegnazione. La solitudine.

Il fiato che sfugge dalla mascherina e mi appanna gli occhiali, i sorrisi con gli occhi, le facce attonite e quelle arroganti di certi anziani, le fusa e i morsi del mio gatto. La menta dei giardini per il mojito, i pomeriggi sul dondolo, il narghilè recuperato dall’oblio.

Il richiamo di Capri, San Pietro deserta, un bisogno irresistibile di tornare a Venezia. E il silenzio tombale della mia città.

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2 Commenti

L'angolo di me stessa 8 Maggio 2020 - 14:07

Anche io meme e alcool!!!! Qui spritz a gogò!!!! :DDDD E tante anche altre cose più serie, ma queste mi sa su tutto!!!!!

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Elena 20 Giugno 2020 - 14:29

Io scrivo dalla provincia di Bologna ….
Quello che mi rimarrà di questa quarantena è un elencodi ricordi: i cieli muti dal mancato decollo e passaggio degli aerei, il passaggio della macchina del comune di residenza che ci redarguiva di rimanere in casa e dello sguardo dei miei figli che la ascoltavano ammutoliti, il conteggio quasi quotidiano delle persone contagiate e delle persone in isolamento , la sensazione di soffocare dopo giornate trascorse inesorabili in casa, le lezioni e i compiti del figlio piu grande, la paura, le strade deserte, le finestre aperte da cui non proveniva nessuna risata o chiacchiericcio di persone o bambini nonostante le meravigliose giornate, la casa troppo piccola per accogliere DAD del primogenito, lo smartworking e le esigenze di 1 bambino di soli 3 anni, le videochiamate con nonni e parenti che ad 1 certo punto il mio bimbo piccolo ha iniziato a respingere come se fosse una cosa troppo dolorosa da gestire.

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