Mia nonna era nata nel ’21, appena dopo la famigerata epidemia di Spagnola di cui tanto si racconta negli ultimi, tragici mesi. Poco più che adolescente, ha avuto tre figlie in due anni, lontano da casa e durante una guerra da cui poi, assieme alle figlie, è dovuta scappare con mezzi di fortuna. Mia nonna non ha fatto in tempo a conoscere Davide e Flavia, è morta davanti ai miei occhi pochi mesi prima che io mi sposassi. Ma se fosse ancora tra noi, probabilmente, penserebbe che crescere dei bambini adesso – nel benessere, in pace, con i vaccini, il cibo e la tecnologia – sia un’esperienza infinitamente più facile di quella che, settant’anni fa, era toccata a lei.
Dai molti punti di vista, avrebbe ragione. La generazione di mia nonna ha tremato ancora (o ci ha convissuto rassegnata) per la gestosi e le morti di parto, per la poliomielite, per il morbillo, per i deficit nutrizionali nell’infanzia. Se non ricordo male, almeno una delle mie zie porta ancora su una spalla il segno dell’antivaiolosa. Erano altri tempi. Erano tempi duri.
Eppure, e lo dico con rispetto e con la massima consapevolezza, sta diventando sempre più dura anche oggi, perlomeno da un punto di vista psicologico. Già esposti normalmente, come generazione, a una pressione sociale altissima, a un’ansia da prestazione schiacciante (che grava soprattutto sulle madri, ça va sans dire), noi genitori ci ritroviamo da mesi in una condizione di estrema incertezza e profondamente ansiogena. Come tutti, certo. Ma con l’aggravante di dover gestire la responsabilità del benessere, non soltanto fisico, di bambini più o meno piccoli e ignari.
Da lunghe settimane, ormai, ci troviamo sommersi da un flusso ininterrotto e turbolento di informazioni, spesso ridondanti, male espresse, non verificate. E soprattutto, in continua contraddizione tra loro. Proviamo a convincerci con ogni mezzo che l’unica cosa importante, in questo momento, sia tenere i nostri figli al sicuro dal contagio (per il bene loro e non solo), ma veniamo travolti da decine di articoli di sedicenti “esperti” sulle conseguenze devastanti che il lockdown avrà sulla loro psiche, sulla loro capacità di relazionarsi con gli altri, sulla loro autostima. E allora torniamo a non dormire la notte, tormentati dal dubbio che l’isolamento e la reclusione possano essere per loro tanto devastanti quanto l’epidemia, seppure in modo diverso.
Non facciamo in tempo a pensare che, tutto sommato, i nostri figli ci appaiono sereni e fiduciosi anche in questa lunga quarantena, ed ecco che ci viene detto che la calma apparente è solo un’altra manifestazione del disagio, se possibile ancora più grave dei capricci, dei pianti, dell’isteria. E allora cominciamo a scrutare i nostri figli attraverso il filtro dell’ansia, attribuendo ogni richiesta di attenzioni, ogni difficoltà a prendere sonno, ogni passeggera inappetenza ai possibili guasti del lockdown. E proviamo a modificare i nostri comportamenti e le nostre reazioni, ad adattare i nostri criteri educativi alle condizioni, mai vissute prime, della pandemia. Navigando a vista e chiedendoci, inevitabilmente, quanti e quali errori staremo commettendo, seppure in buona fede.
Un giorno veniamo edotti, dal fiero pedagogista di turno, sul quanto, in questo momento, conti solo accompagnare i bambini nell’esperienza straordinaria che, nel bene e nel male, stanno attraversando. Il giorno dopo, un suo autorevole collega tratteggia uno scenario raccapricciante sui danni che i nostri figli dovranno patire per la brusca e prolungata interruzione dell’esperienza scolastica. E allora ci sentiamo investiti da una nuova e schiacciante responsabilità: quella di farci garanti dell’istruzione dei nostri figli, senza però vessarli troppo in questo periodo delicato.
Infettivologi, epidemiologi, virologi, immunologi, microbiologi di ogni età, esperienza e curriculum si sentono in dovere di dirci che i bambini sono sostanzialmente al sicuro dalle conseguenze serie del Coronavirus, anzi che potrebbero addirittura essere refrattari al contagio e non trasmetterlo ad altri. Salvo poi informarci, sempre loro, che no, i nostri figli restano una categoria ad altro rischio, sono “untori”, sono “bombe di virus”, sono i super propagatori del male, angeli della morte scagliati come kamikaze contro di noi e i nostri fragili genitori. E noi lì a cercare di mettere in fila le paure, a tentare di stabilire la gerarchia delle preoccupazioni e la classifica dei sensi di colpa.
In due mesi ci siamo sentiti ripetere fino alla nausea che i piccoli sono quelli che si adattano meglio, che hanno più resilienza e che ricorderanno questo 2020 di tregenda come un periodo sereno e lieve assieme ai loro adorati genitori. Ma anche, con altrettanta sicumera, che dobbiamo prepararci a fronteggiare la devastazione psicologica che i nostri figli di certo manifesteranno. L’ansia, le fobie, l’insicurezza. Il disturbo da stress post traumatico. E noi attoniti, sgomenti, incapaci di decidere se i nostri figli siano destinati tutto sommato a cavarsela, o se dovranno inesorabilmente attraversare le paludi del disagio (finanche più di noi che del malessere psichico siamo la generazione bandiera).
Non posso neanche immaginare come debba essersi sentita mia nonna ventenne stretta tra le truppe di due schieramenti diversi. Minacciata da soldati che incombevano su di lei in una lingua che non capiva, assediata da malattie incurabili e dall’incertezza economica. Ma non è per niente facile nemmeno per noi, figli dei grassi anni ’80, generazione del benessere e della “bella vita”. Disorientati e tormentati ogni giorno dal protagonismo di molti, perseguitati dalla preoccupazione e dall’incertezza di quello che sarà.
3 Commenti
Io infatti cerco di tenermi alla larga da tutto questo marasma di informazioni, cerco di filtrare il più possibile e affidarmi ad istinto e a buon senso, ma non è affatto facile. Io credo nella frase che ciò che ti uccide, ti fortifica, ma che fatica!
mio nonno era nato anche lui nel 21, e anche lui ha chiuso gli occhi un mese prima del mio matrimonio… non ha conosciuto Davide e Sara..mi sa che prima o poi noi dobbiamo incontrarci…
Mi sa di sì! 🙂 Come si chiamava tuo nonno?