La prima volta che ti ho visto, mancavano pochi minuti alle sei del mattino. Ero esausta, sveglia da un giorno e mezzo, reduce da una notte di doglie, solo che in quel momento non ne ero cosciente. L’adrenalina scorreva nell’alveo del mio sistema circolatorio come un torrente a primavera, la testa mi girava appena, il cuore batteva più forte del solito. Avevo mezzo corpo paralizzato e insensibile, e un ago inserito dentro una vena, nell’incavo del gomito destro. Un piccolo squarcio orizzontale separava in due la mia pancia, un paio di persone con camice e cuffia svettavano su di me mentre trafficavano per richiuderlo. Qualcuno mi aveva appena comunicato, con una voce che mi sembrò arrivare da distanze siderali, che la placenta era stata estratta integra e senza complicazioni, e che il cordone era stato tagliato. Non so bene come siano riusciti a ricucirmi, dal momento che tremavo furiosamente di freddo, un freddo che non avevo mai provato prima, sintetico come la luce piatta che ci pioveva addosso. Avevano attivato un getto di aria calda per cercare di riscaldarmi, ricordo di essermi chiesta se fuori stesse ancora piovendo. Una donna sconosciuta balbettò qualche convenevole mentre ti avvicinava al mio sguardo miope, abbastanza perché riuscissi a mettere a fuoco la tua smorfia contratta nel pianto. Era un pianto stentoreo, assordante, che lì per lì mi parve rabbioso e che invece, credo adesso, era soltanto disperato. Per l’abbandono che forse temevi di aver subito, per la paura, per la fame, per la solitudine. E per il freddo, che in quel momento ci assediava entrambi, scoperti e spezzati da una separazione chirurgica e definitiva. Ci sfiorammo per un attimo o due, che mi bastarono per passare in rassegna i tuoi lineamenti congestionati, tumefatti dalla lunga permanenza nel mio utero allagato. Che mi bastarono per dire a me stessa che mio figlio non mi somigliava per niente.
Eravamo soli, io e te. Di quella solitudine totale e inconsolabile che ti coglie quando sei circondato dalla folla. Due individui improvvisamente distinti, che fino a tre minuti prima avevano condiviso l’ossigeno, gli ormoni, lo zucchero e il sangue. Avevo perso un pezzo di me, non solo in senso metaforico. Avevo subito la più dolce delle mutilazioni, anche se allora non ne ero cosciente. Avevo freddo, vedevo male, non sentivo nulla se non quel pianto furioso che riempiva l’aria, e che fece dire alla levatrice anziana che in quarant’anni non aveva mai udito “un pianto così”. Penso di aver chiesto se tutto andasse bene, o forse l’ho soltanto immaginato. Non mi hanno risposto, forse il tuo ululato aveva assordato tutti quanti. A un certo punto vidi un mio piede levitare a mezz’aria, qualcuno mi aveva sollevato una gamba e la stava spostando verso destra. Mi parve di guardarmi dall’esterno, non avrei mai provato nulla di tanto straniante, dopo quel giorno.
Ti avrei rivisto solo dopo un’ora o due, vestito coi panni che avevo scelto per te. Non mi sembravi piccolissimo, dopotutto. Non mi sei mai sembrato piccolo, forse perché ero io a sentirmi improvvisamente microscopica, perduta in un mondo improvvisamente immenso, isolata in un vuoto improvvisamente incolmabile.
Se qualcuno mi avesse detto che ci saremmo amati come ci amiamo adesso, forse non gli avrei creduto. Devono avermelo detto, a pensarci bene. E di certo io non ci ho creduto. Se qualcuno mi avesse detto che in te avrei riconosciuto me stessa per filo e per segno, avrei fatto senz’altro un commento sarcastico, di quelli che non si addicono a una puerpera e che invece a me venivano sempre spontanei.
La prima volta che ti ho visto, eri il bambino che avevo appena partorito. Saresti diventato mio figlio, un giorno alla volta, sempre di più. Sarei diventata tua madre, piano piano e per l’eternità, nel bene e nel male. Non avevo idea, la prima volta che ti ho visto, che stavo guardando anche me, per la prima volta, senza riconoscermi.
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Meraviglioso….