Il mio senso di colpa materno è il mio effettivo primogenito, nel senso che ha visto la luce prima ancora che il mio primo figlio emettesse il suo vagito inaugurale. Evidentemente, si annidava in qualche piega della mia coscienza ipertrofica da molto prima che diventassi madre, pronto a tendermi i suoi agguati già durante la gravidanza. Mi stancavo o lavoravo più del solito? Forse stavo nuocendo al mio bambino. Mi concedevo una dose generosa di comfort food non esattamente salutare? Ero davvero una madre degenere. Mi facevo prendere dai dubbi sulla mia imminente maternità? Che pessimo destino attendeva mio figlio! E giù di rimorsi e senso di colpa.
Da allora, anche a causa del clima giudicante e ipocritamente perfezionista che circonda le neomamme, non credo esista qualcosa per cui, rispetto al mio ruolo di genitore, non mi sia sentita in colpa almeno una volta: per aver vestito troppo poco i miei figli e per averli vestiti troppo; per aver dato loro troppo da mangiare o, viceversa, troppo poco; per essere stata troppo indulgente o troppo severa, troppo distratta o eccessivamente presente. Per aver parlato o taciuto, per aver lavorato troppo o troppo poco, per certe cose che ho pensato e altre che invece non mi sono proprio venute in mente. A volte – e davvero mi pare emblematico – mi capita di sentirmi in colpa per il troppo sentirmi in colpa.
Nel tempo (e con un significativo ma benedetto investimento in psicoterapia), ho capito che il modo migliore per esorcizzare il mio patologico senso di colpa materno sarebbe stato probabilmente quello di farci la pace. Di accettarlo come una caratteristica della mia personalità, scomoda e ingombrante ma anche potenzialmente molto utile. Un po’ come la pelle grassa, che mi ha rotto le scatole al liceo ma mi ha permesso di arrivare alla soglia dei 40 anni senza nemmeno una ruga d’espressione. Mi si conceda di nuovo il gioco di parole: non è colpa mia se tendo a sentirmi in colpa, e questo non fa di me una madre fragile, condizionata o negativa. Non mi rende un pessimo esempio per i bambini che la vita mi ha affidato.
Oggi, da potterhead attempata quale sono, provo a guardare al mio senso di colpa materno come a una specie di mistico mantello dell’invisibilità, nel senso che mi rende trasparente ai miei stessi occhi e mi impedisce di entrare in contatto coi miei veri bisogni, con i miei desideri profondi, con la mia vera natura. Il che in effetti non è un bene, ma a volte può servire per mettersi totalmente nei panni e a disposizione dell’altro (e questo vale non solo per i miei figli). Se non avessi questa cronica tendenza a giudicarmi con severità e a sentirmi in colpa, forse sarei meno empatica e meno concentrata sul cercare di migliorarmi con costanza come madre, ma più in generale come donna e come cittadina. Forse verrebbe meno una potentissima spinta a diventare ogni giorno la migliore versione possibile di me.
La sfida rimane quella di non farsi travolgere, di saltare fuori dal mantello quando arriva il momento, sacrosanto e sanissimo, di pensare solo a me stessa. Di concedermi il diritto inalienabile di sbagliare più o meno scientemente, di essere una madre (e una persona) imperfetta, umana e fallibile. Di ricordare che il senso di colpa, appunto, va bene finché si limita a essere uno stimolo a guardare in faccia la realtà e a migliorarsi di continuo, ma è controproducente quando paralizza e condanna all’insoddisfazione perpetua. La sfida, in definitiva, rimane quella di trasformarlo in uno strumento al proprio servizio, nella ricerca costante dell’autenticità che permette di essere liberi e felici.