Le cronache del mio settembre narrano di un autunno che è arrivato troppo presto. Di un cielo a tratti plumbeo che fa il pari col mio cuore d’acciaio. E di un sole che si ostina a splendere, che scintilla sulle cose belle e su quelle orribili, che riscalda la pelle perlomeno da fuori e che si accende, soprattutto, sui volti dei miei figli. Un sole combattivo e ostinato, come la vita che non finisce mai.
Le cronache di questo mio afoso settembre raccontano di una routine da ritrovare al più presto, come un terreno relativamente solido da ricompattarsi sotto i piedi. Proprio io che alle abitudini sono sempre stata allergica. Narrano di confini da ristabilire e da rinforzare, di muri da abbattere. Di cose da dimenticare e di altre da ricordare per sempre.
Le cronache del mio settembre narrano di un dolore grande e annunciato, ma non per questo meno assoluto e definitivo. Uno di quei dolori che ti cambiano l’esistenza per il resto dell’esistenza. Un dolore condiviso con un sacco di gente amata o sconosciuta, e che per questo diventa ancora più osceno e faticoso da sopportare. Narrano di vecchi che si fanno bambini e di bambini che dispensano saggezza come i vecchi. Di una rabbia cieca che si inventa colpevoli perché non può trovarne uno vero.
Ma narrano anche, le cronache di questo mio settembre arrivato all’improvviso e a tradimento sul finire di un’estate dissociata e bipolare, dell’imperativo perentorio a vivere forte. A vivere di più e meglio, a vivere due volte. A vivere davvero. A vivere anche per chi avrebbe voluto continuare a farlo e invece tragicamente non potrà. Dell’imperativo ad amare, ma di un amore che sia liberatorio e autentico, ponderato e salvifico. A perseverare nel solo obiettivo per il quale siamo venuti al mondo: perseguire con consapevolezza la nostra felicità.