Quando ero piccola, c’erano i libri. Verne, Stevenson, Conrad (pochi anni dopo sarebbero arrivati i russi e i sudamericani). Altre esistenze in cui calarsi, orizzonti sconosciuti in cui perdersi, avventure da vivere con gli occhi e la mente e il cuore. Epoche diverse, luoghi lontani. Sogni di carta in cui pascere la mia fantasia, la mia voglia d’altro. Poi c’è stato il periodo delle cartoline illustrate. Ne avevo una collezione di tutto rispetto, organizzata per continenti e aree geografiche. Le sfogliavo fantasticando su quando io stessa avrei messo piede su quelle terre esotiche, intimamente convinta che prima o poi sarei riuscita a visitare tutte le località di cui riuscivo ad accaparrarmi una preziosa cartolina postale.
Gli anni dell’adolescenza sono stati un classico: miti giovanili (sportivi, quasi esclusivamente) di cui innamorarsi, lettere da scrivere, ritagli da conservare. E poi le prime vacanze, viaggi sudati in treni sferraglianti, cocktail colorati, chiacchierate notturne e giochi in mare. Come un’appendice alcolica dell’infanzia, anche se allora non avremmo mai osato ammetterlo. La consapevolezza fremente che “il meglio doveva ancora venire”. I libri erano sempre lì, i francesi e i russi scalzati dagli americani, con qualche italiano a fare da intruso e i sempiterni latinoamericani a contendere spazio a tutti gli altri.
Quando finalmente è arrivato, il meglio, ha assunto le sembianze rivoluzionarie e un po’ scomode (pure un po’ inquinanti, d’accordo) delle compagnie aeree low cost. Un intero continente, il più carico di storia, di radici, di suggestioni, finalmente alla mia portata. L’azzurro sfavillante del Mediterraneo e l’atmosfera controriformista della Mitteleuropa. Il vento tagliente sulle coste atlantiche, la brughiera al Nord, i castelli e le chiese. L’arenaria, i calcari, i marmi, i tufi e i graniti. Il vino e la birra, il fado e le ballate celtiche, le cornamuse, le mandole e i violini. Il pane. Ogni volta diverso eppure sempre uguale a se stesso.
Andare lontano per rendere sopportabile il pensiero di tornare a casa. Illudersi di cambiare continuamente, di vivere tante vite in una, conoscere almeno una porzione piccolissima delle infinite cose “altre” che ci sono là fuori. Raccontarsi di diventare ogni volta una persona leggermente migliore di quella che era partita, riempire la bisaccia dei ricordi di nuovi momenti, nuovi luoghi, nuovi odori di cui avere nostalgia.
Scappare, in ultima analisi. Sapendo che poi si dovrà fare ritorno, ma intanto scappare. Mettere chilometri tra sé e il quotidiano – normale, tranquillo, accettabile, ma ugualmente un po’ troppo stretto, viziato, un po’ alienante. Spezzare il corso regolare degli eventi, capovolgerlo, alterarne il ritmo.
Fuggire solo per un po’. Evadere a tempo determinato, scappare per “finta”. Per raccontarsi un’altra storia e un’altra verità.
È una cosa che mi è riuscita sempre bene, e che ultimamente sta diventando una specie di ragione di vita. Sopporto (malamente) il ritorno solo mettendomi a programmare un’altra fuga. Che sia la quintessenza della pavidità o la cosa più coraggiosa che abbia mai fatto, in fondo cosa importa? Io intanto scappo, e per il momento va bene così.
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[…] La strategia della fuga di Una mamma green: in verità ho adorato anche altri post di questa blogger ma di questo post ho […]
[…] Senza i libri sarei una persona più triste, più sola, più povera. Una persona peggiore. […]