Cara mamma adottiva,
ti devo le mie scuse.
Sono cresciuta pensando che tu fossi una madre esattamente identica a tutte le altre, ho coltivato per tutta la vita la ferma convinzione che non esistesse alcuna differenza tra te, che il tuo bambino lo hai covato in una casa-famiglia o in un brefotrofio, salvandolo da un avvenire di indigenza e solitudine, e tutte quelle donne che il proprio lo hanno portato in grembo per nove mesi, sottraendolo soltanto al limbo facile della non-vita.
Credevo sinceramente che la tua fatica, il tuo amore, i tuoi sogni e le tue disillusioni di mamma-di-cuore fossero uguali in tutto e per tutto a quelli di una qualsiasi mamma-di-pancia, che magari se ne va in giro dando per scontato che i figli si crescano per forza dentro un utero.
Da quando sono madre, però, ho la netta sensazione di essermi sbagliata. Di aver sottovalutato la portata del tuo spirito di abnegazione e della tua forza di volontà. Di aver banalizzato il tuo essere madre, di averne ridimensionato la grandezza e il valore. Io mio figlio l’ho tenuto nella pancia, eppure ho impiegato del tempo per imparare ad amarlo, per sentirlo “mio” (passami il possessivo, per quanto improprio). Per riconoscere nei suoi occhi quella luce in grado di parlare al più fondo del fondo del mio essere. E se non fosse stato per il fatto di averlo fabbricato pezzo a pezzo al centro del centro del mio corpo, non so davvero come sarebbe andata.
Lo confesso. Nei primi, durissimi, tempi della mia maternità, era a quello, solo a quello, che sapevo appellarmi: a quella cicatrice che mi solca l’addome quasi all’altezza del pube, a quel cordone ombelicale da medicare pensando che fosse, in qualche modo, il “negativo” del mio ventre. Al ricordo di quando quell’esserino dispotico e irragionevole mi scalciava dentro. Il sangue, che mi piacesse o no, era (tutto) ciò che ci legava, la sola cosa che mi permettesse, tra le lacrime e lo sgomento, di riconoscere mio figlio come tale. Non che fosse un pensiero consapevole, mia cara mamma adottiva, ma nella pelle, nelle viscere, nelle ossa, era proprio questo che sentivo: sopportare la fatica, il dolore fisico, la solitudine e il senso di inadeguatezza mi era possibile solo per il legame che avevo in qualche modo costruito con mio figlio nei nove mesi di gestazione.
E ancora adesso, quando la stanchezza è più forte o la commozione più palpabile, è sempre là che ritorno: a quel senso di appartenenza che non può che essere anche, seppure non più soltanto, biologico. La chimica, quella stessa chimica che tante volte mi ha confuso e annebbiato la mente, mi ha sostenuto – e mi sostiene – nei momenti più duri, ed enfatizza con vigore quelli più felici.
Ma tu, invece, non hai bisogno della carne. Non è stata una placenta che ti ha reso madre. Non un seno pieno di latte o una fila di smagliature sul ventre. Sei mamma nella testa e nell’anima, lo sei stata da subito, più e più in fretta di quanto non sia stata capace di fare io. Non hai bisogno di un richiamo ormonale per riconoscere tuo figlio, al massimo è il tuo corpo che viene dietro al tuo cuore, che si modifica insieme a lui, che lo segue nel suo slancio incondizionato di amore materno.
Non è da tutte, adesso lo so. Non sarebbe, forse, stato per me.
Per questo, carissima mamma adottiva, ti chiedo scusa per aver sempre sottovalutato la tua capacità – tutt’altro che ordinaria – di amare in modo realmente libero e gratuito. Di andare oltre le ataviche alchimie del corpo, di superare le barriere del sangue. Di fare più e meglio della natura, oserei dire.
Ti ammiro molto, e penso spesso a te come a un esempio di forza e di amore disinteressato.
Adesso so che non siamo affatto uguali, io e te. In un certo senso, sei molto “più madre” di me.
Con sincera ammirazione,
una madre qualsiasi.