Questo non è un post sulla fecondazione assistita, né, più in generale, sulle cure contro l’infertilità. Mi mancano l’autorevolezza, la competenza, l’esperienza e finanche la voglia di affrontare un tema di questa portata. Questo, diversamente, è un post sull’essenza stessa della maternità (e paternità), sul valore della scelta, sull’area grigia – dolorosamente grigia, talvolta – che può spalancarsi sotto i piedi di chi insegue il desiderio di un figlio per strade più tortuose di quelle che conducono nella propria camera da letto.
Nel quadro delle norme, discusse e discutibili, che regolano una materia tanto delicata quanto può essere la procreazione medicalmente assistita, di solito i figli sono di chi li ha desiderati, cercati, amati. Al di là – per lo meno in molti Paesi – del cocktail genetico che si portano dentro ogni cellula. Non è una fusione di gameti a fare un genitore, non lo sono una gestazione e un parto, ma la presenza quotidiana, l’amore distillato ogni santo giorno, la volontà stessa di essere madre o padre.
Ma quando ci sono due coppie che li desiderano, e li considerano propri, come nel caso recente degli embrioni scambiati al Pertini di Roma, di chi sono i figli? Se lo chiedeva qualche settimana fa Daria Bignardi nella sua rubrica su Vanity Fair, e da allora non faccio che domandarmelo insieme a lei. La legge italiana, su situazioni paradossali come queste (e non solo), è completamente inadeguata. Né sembra percorribile, in casi come questo, la strada anglosassone delle “adozioni aperte”, in cui in qualche modo i “quattro genitori” sono tutti coinvolti nella crescita dei bambini. E così la domanda, perentoria, lacerante, resta: i figli sono della coppia che ha fornito il materiale genetico, o di quella che ha deciso di non interrompere la gravidanza e assisterà alla nascita dei bambini? Posto che entrambe li desiderano e probabilmente già li amano, quale delle due madri dovrebbe crescere i gemelli, quella che sa di aver dato loro 23 cromosomi a testa, o colei che li sente rotolare nel suo ventre?
Io non riesco a pensare a questa vicenda senza provare sgomento. Senza avvertire una profonda compassione per entrambe le coppie coinvolte. Senza immaginare – solo immaginare – lo strazio di due donne e due uomini che subiscono le conseguenze di un errore altrui. Senza domandarmi, soprattutto, cosa proveranno quei bambini quando, inevitabilmente, conosceranno la storia dolorosa che li ha accompagnati in questo mondo. La legge deve fornire al più presto indicazioni (e comunque mi sa che dovrà farlo la giurisprudenza), su questo non ci piove. Ma un dubbio finale non riesco a fugarlo: può essere un decreto, o una sentenza, a stabilire cosa rende tale un genitore?
Intanto, a me torna in mente la vicenda biblica del neonato conteso e del Re Salomone, che smaschera la falsa madre proponendo una “soluzione” cruenta per il bambino. L’amore materno, autentico, genuino, sincero, si rivela nella disponibilità a rinunciare a quel figlio tanto voluto, pur di lasciarlo vivo. Il problema è che qui non c’è nessuna “falsa madre”. Solo dei bambini veri che pretenderanno di sapere chi sono i loro genitori.