Ogni anno che passa

Ogni anno che passa mi conosco un po’ meglio. E, se questo non basta per amarmi di più, serve almeno per imparare a perdonarmi qualcosa. Ogni anno che passa, in pratica, faccio pace con un mio difetto (non prima, mi pare doveroso precisarlo, di aver tentato, per chissà quanti degli anni precedenti, di disfarmene in tutti i modi possibili). Mi rassegno, per usare una parola infelice ma tutto sommato appropriata, a una cosa di me che non mi piace, ma che proprio non riesco a modificare.

So che le persone, all’inizio dell’anno, si cimentano di solito nell’esercizio opposto: migliorarsi, correggersi, fare pulizia. Cancellare da se stessi o dalla propria vita qualcosa di sbagliato o di fastidioso. Io, come in altre occasioni, procedo (faticosamente) in direzione ostinata e contraria. Ogni anno che passa, di solito al termine di una crisi che dura almeno per tutto dicembre, mi concedo con un sospiro una debolezza nuova. O almeno ci provo, perché l’accettazione dei propri limiti è una strada piena di anse e inversioni a u.

Quest’anno, per esempio, ho deciso che non voglio più combattere contro il mio timore atavico di perdere l’amore delle persone che mi sono care, a cominciare naturalmente dai miei figli. Sono stanca di sentirmi, per questa insicurezza che mi accompagna da sempre, paranoica o patetica. Sono davvero esausta. Non ne posso più di sentirmi in colpa, di auto accusarmi di morbosità o, peggio, di gelosia. Tentare di cambiarmi, armare ogni santo giorno la mia razionalità più feroce contro l’impasto tiepido dei miei istinti più intimi nel tentativo di tenerli a bada, strozzarli, silenziarli, si è rivelato alla fine un esercizio estenuante, oltre che completamente sterile.

Ho deciso che me la tengo, la mia cara insicurezza. Non è una malattia, non è un problema da risolvere. È una mia caratteristica, come i piedi piccoli e i capelli castani. Ne prendo atto, con sollievo, e mi sento già meglio.

Non dò per scontato che le persone che mi amano oggi lo faranno anche domani. Mai, nemmeno per un secondo. Mi alzo ogni giorno chiedendomi se scorgerò ancora, negli occhi dei miei cari, la stessa affezione che c’era fino al giorno precedente. Qualsiasi discussione, il più banale dei malintesi, ogni gaffe, qualunque scontro, rappresenta per me il possibile, temuto, capolinea di un rapporto (anche decennale). Ogni assenza, ogni silenzio, minacciano, per quanto brevi, di trasformarsi in un definitivo abbandono. È così da sempre, e sempre lo sarà.

E questo vale anche per i miei figli. Soprattutto per loro. Il fatto che ieri mi abbiano voluto bene, e abbiano avuto così tanto bisogno di me, non significa che sia altrettanto anche oggi. Non significa che sarà così per sempre. Il fatto che sia stata finora la persona per loro più importante è, senz’altro, temporaneo e transitorio (e che “la mamma è sempre la mamma” è una frottola pietosa che ci raccontiamo per coccolare il nostro io). Potrei perderli in qualsiasi momento, a vantaggio di chiunque altro. Anzi, prima o poi, molto probabilmente, succederà.

È logorante vivere i rapporti più intensi con questa specie di spada di Damocle penzolante sul collo? In un certo senso lo è, senz’altro. Ma ho capito, finalmente, che rappresenta anche una straordinaria opportunità. Mi impone di dare sempre il massimo, e possibilmente qualcosa in più. Mi costringe a riparare agli sbagli, a comprenderli, a dichiararli. A confessarli sempre, nella speranza che vengano perdonati. Mi obbliga a meritarmi ogni giorno l’affetto, o l’amicizia, delle persone che amo.

Non so se questo, finora, mi abbia reso una persona (una figlia e una moglie, un’amica, una cugina, una nipote, eccetera eccetera) più attenta, o semplicemente più suscettibile e insicura. Non so se abbia complicato o arricchito le mie relazioni affettive. L’una cosa e l’altra insieme, probabilmente. Non ho idea, soprattutto, se il non dare mai per scontato l’amore dei miei figli, o il loro legame “speciale” con la propria mamma, mi aiuterà nel tempo a essere una madre “migliore” o soltanto più ansiosa e possessiva.

Ma sono consapevole, ogni anno che passa un po’ di più, che io sono come sono, nel bene e nel male. E per quanto cerchi come tutti di migliorarmi e imparare, non posso pretendermi immune da ogni debolezza.

E allora brindo alle mie paure, e a tutto quello, di straordinario e di esecrabile, che significano nella mia vita. Brindo con gratitudine infinita a quelli che mi amano oggi e che mi ameranno domani, e con rassegnata nostalgia a chi mi ha amato fino a ieri e adesso, all’improvviso o un po’ per volta, ha smesso di farlo. Brindo con speranza a chi non mi ha mai davvero amato, certa delle sue valide ragioni. Brindo, soprattutto, ai miei figli, e all’amore straordinario che ho letto finora nei loro sguardi, sperando di poterlo meritare oggi, domani e sempre, ogni anno che passa. Così speciale, così esclusivo. Perché loro non mi appartengono, per carità, ma io (c’è poco da fare) apparterrò loro per tutta la mia vita, e va bene così.

 

Buon anno a tutti. Perdonatevi di più, se potete (e perdonate un po’ anche me, magari).

 

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2 Commenti

happilysurviving.wordpress.com 5 Gennaio 2016 - 16:37

Un brindisi a te e ai tuoi figli che hanno una mamma speciale che li ama ma che riflette su tutto continuamente.
Ti lascio il link al mio post in cui parlo del mio 2015 e di quello che ho imparato (a volte sbagliando a volte no)!
https://happilysurviving.wordpress.com/2016/01/03/happiness-flow-in-2015-and-happy-new-year/
un bacione e buon 2016!

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Chiara 7 Gennaio 2016 - 13:31

mi fai piangere, anche se il tuo post in teoria è sereno e positivo. Piango perché in certe cose mi ci rivedo, anche se non sono folle di gelosia forse per la troppa sicurezza che ho, a proposito dell’amore di mia figlia.
Però grazie, mi piaci tanto 🙂

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