I capricci esistono?

by Silvana Santo - Una mamma green

C’è chi li chiama capricci, alla vecchia maniera. Chi sostiene che non esistono, e che si dovrebbe più propriamente parlare di “manifestazione di un bisogno”. Chi consiglia di ignorarli e chi li asseconda sempre. Per stanchezza, per cuore tenero, o perché è davvero convinto che fare il contrario possa nuocere ai bambini. Fatto sta che il tema dei capricci è uno degli argomenti su cui le mamme del web si accapigliano più volentieri, magari citando – con cognizione o più spesso a sproposito – una nutrita pletora di esperti e pedagogisti, dalla Montessori in giù.

Personalmente, non ho mai avuto problemi a usare il termine incriminato. Lo attribuisco da sempre anche a me stessa, quando mi lamento senza una vera ragione, o mi accanisco eccessivamente su qualcosa. I bambini fanno i capricci, e a volte li fanno anche i grandi, tant’è. Peraltro il vocabolario Treccani attribuisce alla parola un significato che di per sé non mi pare abbia nulla di offensivo o giudicante: “Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata“. I piccoli sono campioni di ostinazione e di labilità, quindi penso sia del tutto naturale che abbiano una inclinazione maggiore ad essere capricciosi.

Quello che però non condivido – e ci ripensavo giusto oggi rispondendo a un commento qui sul blog – è l’idea che un bambino molto piccolo scelga, consapevolmente, di fare i capricci pur di ottenere quello che in quel momento desidera. Che agisca avendo in mente una correlazione di causa ed effetto tra i suoi capricci e la reazione dell’adulto. Che metta deliberatamente in atto un comportamento studiato (piangere, urlare, battere i piedi, gettarsi per terra) con l’obiettivo di ottenere ciò che vuole. Io penso che questo grado di consapevolezza e di “premeditazione” non appartenga ai bambini di pochi anni, ma che si acquisisca, per quanto rapidamente, soltanto con l’età. E che i capricci dei piccolissimi siano invece un comportamento per loro automatico e spontaneo. Inevitabile, diciamo. Dettato da quello che, in quel momento, per loro è un malessere reale e insopprimibile, per quanto possa ovviamente trattarsi di una cosa futile o passeggera (questo, ovviamente, non significa che sia sempre opportuno assecondare il pianto e le proteste di un bambino, per quanto piccolo sia).

Se un bimbo di pochi mesi piange fino a provocarsi il vomito perché detesta il seggiolino auto, non penso che lo faccia perché speri di convincere i genitori a liberarlo, ma semplicemente perché il disagio che avverte è reale e insopportabile. Ovviamente, la sua disperazione non è un motivo neanche lontanamente valido per toglierlo dal car seat. Altro esempio: se un piccoletto di un paio di anni scarsi si dispera quando viene lasciato all’asilo, a mio parere lo fa perché davvero vive quella separazione come un momento di profonda angoscia, e non certo perché, razionalmente, è convinto di ottenere che chi lo ha accompagnato a scuola se lo riporti a casa per farlo smettere di piangere. E poco importa che nel giro di appena pochi minuti lo stesso bambino “dimentichi” le lacrime per giocare felice insieme ai suoi compagni. “Voglia improvvisa e bizzarra, spesso ostinata anche se di breve durata“. Appunto. Quando quel bambino, alla fine dell’inserimento, smetterà di piangere, non lo avrà fatto perché rassegnato dall’evidente inefficacia del suo stratagemma, ma perché avrà avuto il tempo di conoscere il nuovo ambiente, affezionarsi alle maestre, fidarsi delle promesse del genitore di tornare a riprenderlo poco più tardi. Questo solo per fare uno dei tanti possibili esempi. Significa che un inserimento all’asilo particolarmente drammatico andrebbe interrotto? Ovviamente no (e parlo per esperienza personale). Un genitore ha il preciso dovere di agire nell’interesse di suo figlio, a prescindere dalla reazione di suo figlio stesso. Non penso affatto che, solo perché un bambino piccolo si dispera perché vorrebbe l’ennesima caramella, sia opportuno accontentarla. Dico solo che la sua frustrazione, in quel momento, è autentica, e non il frutto di chissà quale calcolo per manipolare o imbrogliare l’adulto di turno. 

Ho sentito spesso dire che i neonati piangono perché sono furbi, e sanno che, se strepitano, qualcuno alla fine li prenderà in braccio. In questa affermazione, per come la vedo io, ci sono una parziale verità e un grosso equivoco. È vero che i neonati strillano perché istintivamente sanno che, almeno in linea teorica, il loro pianto dovrebbe suscitare una reazione in chi si prende cura di loro. Anche il mio gatto si ostina a miagolare per chiedere cibo, anche se, tra l’altro, lo ottiene nel 10% dei casi. Ma pensare che dietro quel pianto ci sia un ragionamento consapevole in termini di causa ed effetto (“adesso piango finché non mi prendono”) secondo me è insensato. Attribuire uno schema di comportamento tipico degli adulti a bambini che sono ancora privi di esperienza, sovrastrutture e capacità logiche complesse mi sembra francamente un errore.

Che poi sia solo questione di anni (pochi, pochissimi) perché imparino a fregarci per bene, questo è un altro discorso.

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2 Commenti

L'angolo di me stessa 11 Gennaio 2017 - 19:38

In totale e completo accordo con te!

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Ros 13 Gennaio 2017 - 21:51

Condivido in pieno. La mia strategia per i capricci è comprendere ( l’emozione, il bisogno, la frustrazione, il messaggio che cerca di arrivare…) ma tenere il timone non cedendo sulle poche regole che io e mio marito abbiamo condiviso. Posso dire che funziona…e mi ha sollevato da tante ansie e sensi di impotenza

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